Il dibattito sull’orario di lavoro, innescato dai recenti articoli di Massimo Ferlini e Daniel Zanda, mi permette di inserirmi con ulteriori valutazioni intorno alla fattibilità di introdurre la settimana corta basata su quattro giorni di lavoro. A me pare che occorra approfondire la questione, in realtà molto complessa e che ha bisogno di molte precisazioni, per evitare slogan e chiacchiere che non tengono conto di tutti i fattori in gioco.



Ad esempio, alcune sperimentazioni in atto, anche nell’area metropolitana milanese oltre che in altre parti d’Italia, hanno visto una lunga discussione intorno a nuovi modelli di organizzazione aziendale e del lavoro, in quanto il numero delle giornate di prestazione è il risultato finale di altri programmi e decisioni intraprese. Ad esempio, in talune sperimentazioni si lavora quattro giorni ma si è incrementato l’orario giornaliero a 9 ore, e questo fatto permette di non dare per scontato nulla ovvero che il tema è rappresentato non solo dal numero di giorni lavorati alla settimana ma dalla definizione di orario giornaliero (e con quali/quante pause), di orario settimanale e orario annuale. Infatti, il vero tema da cui partire, a mio modesto parere, è la quantità annua di lavoro prestato in ore e giornate, a cui si sommano le ore/giornate per ferie, riposi e quant’altro previsto dai diversi contratti di lavoro applicati nei diversi settori.



Infatti, se in apparenza si rivela semplice parlare genericamente di “quattro giornate lavorative”, ciò risulta comprensibile solo per le aziende in cui si lavora dal lunedì al venerdì o comunque nell’ arco temporale della settimana in cui risulta normale stabilire che si lavora quattro giorni e si riposano tre giorni; già oggi, ad esempio nella grande distribuzione, la scansione del numero delle giornate è collocata in una turnazione riferibile non più alla settimana “biblicamente” intesa.

La mia esperienza mi porta ad affermare anche l’incidenza di un altro paradigma a cui riferirsi, oltre a quelli citati da Ferlini e Zanda, ovvero le questioni attinenti alla conciliazione con la vita e l’innegabile necessità di incrementare la produttività. Ed è il riferimento diretto con l’occupazione. Si riduce l’orario in quanto vi è una minore quantità di lavoro disponibile e da qui una diversa ripartizione dello stesso tra gli addetti. Tendenza che la tecnologia diffusa e l’automazione di molti processi produttivi indurranno sempre di più nell’impiegare meno ore lavorate. D’altra parte che cosa rappresenta l’intervento della Cassa integrazione, nelle diverse tipologie introdotte dagli anni ’60 del secolo scorso in poi, se non una diversa ripartizione e riduzione dell’orario lavorato e sostegno al reddito nel tempo di non lavoro?



Lo spazio a disposizione non permette di dilungarci ulteriormente su vicende molte complesse. Accenno qui alla vera questione che intendo sollevare, chiedendo la disponibilità alla direzione del giornale di ospitare ulteriori interventi dello scrivente, laddove ritenuto utile e necessario. Il legame diretto tra orario e occupazione, oltre alla logica “difensiva” sopra accennata con la Cassa integrazione per evitare i licenziamenti, anche attraverso i contratti di solidarietà, lo si vede laddove il lavoro è correlato direttamente e totalmente al servizio di un ciclo che non si interrompe mai! Mi riferisco agli ospedali, Rsa, alle ferrovie, ai caselli autostradali e impianti di carburante, ai servizi di emergenza (tutto il comparto della sicurezza), alle centrali elettriche, raffinerie, impianti petrolchimici, ai servizi idrici… ciascun lettore potrà arricchire l’elenco.

Stiamo parlando di centinaia di migliaia di persone che lavorano in turno a ciclo continuo, dove se si dovesse parlare di settimana corta, se va bene si riceve in cambio un sorriso! Queste persone, con lo smartphone in mano usato come agenda, ragionano su scansioni di tempo pluri-settimanale se non pluri-mensile, dove non c’è differenza tra notte e giorno, tra sabati e domeniche, tra Natale, Pasqua e Ferragosto se non per le maggiorazioni retributive per lavoro domenicale, festivo, notturno, ecc. In questo caso, si lavora in squadre di turni in relazione al numero di lavoratori per ogni posizione di lavoro.

Ad esempio, se in un reparto con 5 posizioni di lavoro si lavora 8 ore al giorno in ciclo continuo, saranno necessari tanti lavoratori per coprire il servizio, tenendo conto dei riposi di legge, delle ferie e delle eventuali assenze per malattia, infortunio e altri imprevisti. Riducendo l’orario ovvero il numero di giornate prestate al lavoro, al netto dei riposi sopra indicati, o si immettono nuovi lavoratori in turno o si ferma il servizio!

Il legame diretto lo si vede qui, basta fare quattro conti sull’anno disponibile ovvero 365 giorni (366 se anno bisestile): se si tolgono i riposi di legge (104 sabati e domeniche), le ferie e altri riposi retribuiti come ex festività e assimilati (almeno 30 giorni annui), le festività che vengono lavorate si arriva a circa 230 giorni di prestazione dei singoli lavoratori. Se si riduce il loro numero di giornate nei turni toccherà assumere altri.

Sembra tutto facile apparentemente, ma sappiamo tutti che così non è, in quanto i costi non sono una variabile indipendente. Allora condivido la necessità di non chiudere le discussioni, ma di sperimentare nei singoli luoghi di lavoro i modelli più confacenti, senza provvedimenti generali fuorvianti e utili solo per le piazze e la convegnistica.

Continuiamo a parlarne.

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