Nella mia collezione di gadgets storici c’è un orologio a cipolla che sotto alla figura del mitico operaio della fonderia porta la scritta “8 ore”. È la riproduzione di un orologio fatto a fine Ottocento dai lavoratori socialisti per sostenere la campagna per le 8 ore lavorative, e all’epoca era per 6 giorni alla settimana.



Il dibattito sulla diminuzione dell’orario di lavoro è ripreso nel periodo post Covid prima come un’opzione da considerare nella riorganizzazione del lavoro agile, poi come possibile piattaforma generalizzata proposta dalla Cgil.

Le reazioni che si registrano dopo la fase del lavoro durante la pandemia hanno a poco a poco lasciato il tema delle grandi dimissioni viste come fuga dal lavoro. Il fenomeno è tornato a essere visto come un profondo cambiamento della visione del lavoro con in più l’essere sintomo di un cambiamento strutturale.



In questo senso incomincia a emergere il fattore demografico e ciò, soprattutto per alcune qualifiche lavorative, porta ad aumentare la capacità contrattuale di molti lavoratori. Si aggiunge poi un cambiamento di senso assegnato al lavoro. Insieme al fattore salariale sempre di più appaiono due criteri nella scelta di dove lavorare che portano a una nuova e crescente mobilità.

Da un lato, si valuta la conciliazione fra condizioni di lavoro e vita privata. Se le condizioni di lavoro, orari, stress, ecc. non sono ottimali si cerca velocemente un cambiamento. In secondo luogo, si cerca un’occupazione che permetta di vedere e perseguire un percorso di crescita professionale. Anche in questo caso, in assenza di chiarezza su cosa offre l’azienda, o anche solo perché incappati in un settore a bassa potenzialità futura, si sceglie di cercare velocemente altre posizioni lavorative.



In questo schema di ricerca di percorsi di crescita professionale che si concilino con le aspettative della vita privata, la flessibilità degli orari di lavoro e le possibilità di smart working diventano una delle forme richieste. Posto fisso e contratto a tempo indeterminato passano in seconda fila rispetto alle priorità assegnate ad altre variabili che devono caratterizzare il lavoro desiderato. Se poi il sistema di welfare e del credito fossero adeguati a questi cambiamenti del lavoro saremmo già in presenza di un cambiamento di fondo sui sistemi di protezione e tutela dei lavoratori. Un sistema di diritti e tutele che si basa sul lavoro subordinato diventa obsoleto e anche controproducente in un sistema dove il lavoro è prevalentemente organizzato per obiettivi lasciando molta flessibilità organizzativa a favore del lavoratore.

Questa lunga premessa alla questione della riduzione dell’orario di lavoro, ovviamente a parità di salario, è per portare il dibattito dentro a quanto sta avvenendo nei rapporti di lavoro in questo periodo. Un po’ come succede per lo slogan sul salario minimo, si rischia di semplificare la realtà a colpi di slogan, si lanciano scorciatoie, ma non si offre così una reale soluzione. Si avanzano proposte che radicalizzano lo scontro bloccando ogni capacità di avanzare riforme reali delle condizioni lavorative.

La tesi di “lavorare meno per lavorare tutti” è stata smentita dai tentativi attuati in vari Paesi negli anni passati. Se l’economia fosse composta da risorse fisse e definite, e in sistemi chiusi fra di loro, la tesi potrebbe aver un senso. Ma le realtà economiche sono esattamente il contrario. Nuovi bisogni portano a nuove risposte, nuove imprese e nuovi lavori. E lo scambio con altri è la base dello sviluppo di nuovi mercati, nuove merci e nuovi modi di produrre.

Allora è chiaro che lavorare meno è oggi proposto per poter vivere meglio. Per affrontare il tema a livello di sistema si deve perciò sempre ricordare che ci saranno lavori che si dovranno fare quando altri si divertono e viceversa altri che lavorano per permettere agli altri di lavorare. Non è un gioco di parole, ma rendere chiaro che poi ci saranno più lavori a turni, più lavoratori impegnati in giorni “festivi”, insomma si sta ridisegnando l’orologio sociale.

A fronte di questo dobbiamo poi valutare cosa comporta tutto questo per il nostro Paese. Abbiamo da poco impresso una crescita del tasso di occupazione, ma restiamo ancora indietro rispetto a quello dei Paesi europei più sviluppati. Abbiamo inoltre un tasso di crescita della produttività che è fermo da troppi anni e che vincola la possibilità di ricorrere alla spesa pubblica per sostenere nuovi deleteri sussidi al lavoro. Alcuni articoli di giornale hanno portato acqua alla tesi della diminuzione dell’orario di lavoro mostrando come vi siano già imprese italiane, in particolare nella motor valley emiliana, che funzionano già con orario ridotto a parità di salario.

Essendo i titoli sempre più slegati dai contenuti degli articoli bastava leggere tutto per vedere che non tutto è così semplice e soprattutto non replicabile ovunque. Gli esempi trattano proprio quel sistema di imprese che, perché capaci di competere con la concorrenza estera, hanno saputo investire in ricerca e sviluppo e hanno tenuto una crescita della produttività in linea con i competitor e molto al di sopra della media del sistema Italia.

Ecco allora come potremmo definire lo slogan di supporto. “Più produttività per salari migliori e per lavorare meno”. Sarebbe una sfida per tante piattaforme contrattuali che si devono preparare per il rinnovo contrattuale. In molti settori industriali potrebbero da subito concordare come distribuire i risultati della crescita. In molti settori, dalla Pubblica amministrazione, alla scuola, alla sanità, alla giustizia, ma anche per molti settori privati, sarebbe l’avvio di una modernizzazione e una rivoluzione del modo di lavorare che oggi non avviene perché si preferisce tutelare le forme burocratiche e corporative invece di cercare di lavorare meglio e meno ma per produrre di più.

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