Emanuele Severino è uno dei grandi maestri nella filosofia degli ultimi decenni del Novecento. È stato allievo di Gustavo Bontadini, cioè interessato ad una metafisica  che frequenta i grandi testi della filosofia greca, dai presocratici a Platone e Aristotele, ma anche, nei suoi esordi di studioso, impegnato a misurare le problematiche del pensiero contemporaneo, soprattutto in riferimento a Martin Heidegger.



D’altra parte Severino ben presto ha sviluppato un’interpretazione della filosofia greca classica che è insieme originale ed anche, se si vuole, paradossale. A partire dalle lettura dei frammenti di Parmenide  ha messo a fuoco una critica del concetto di negazione che lo ha convinto riguardo ad una certa deriva ed anche a un certo tradimento perpetrato da Platone nei confronti della luce accecante del filosofo di Elea, che ha insegnato a pensare che “l’essere è” e “il non essere non è”. Affermazione per Parmenide, ed anche per Severino, radicale ed inaggirabile. Il pensiero è infatti impotente a pensare l’essere come nulla. Il negativo, lo sfiorire e il tramontare delle cose è perciò apparenza. Dove le cose precipiterebbero? Nel “nulla”? Ma il nulla è nulla, non esiste. Infatti “è” (!?) nulla!



Questa tesi non è semplicemente un esercizio sofistico in senso deteriore. È invece il tentativo di arginare l’effetto devastante del negativo, devastante se gli si concede un effetto nullificante, distruttivo. Ma ciò costituisce un abbaglio in cui è caduta la filosofia occidentale discepola dei greci. Il “positivo” e il “negativo” non danzano e non si intrecciano insieme nel dolore e nella fatica del divenire. Tutti i filosofi occidentali si sono affaticati a risolvere questa contraddizione irrisolvibile.  Originariamente ciò che esiste non scioglie i legami che lo legano a se stesso, ma permane nella beata compagnia di tutto l’essere. Il pensiero dell’Occidente ha perso la nozione di un Destino che soggiace ad ogni ente ed evento, e si è invece arreso all’apparenza nichilistica secondo cui gli enti sono irrimediabilmente afflitti dal nulla ed anzi sono nulla.



Tale posizione per altro non è affatto stravagante ed inattuale, ma anzi attraversa lo strapotere della tecnica e del sistema capitalistico, che pretende di spadroneggiare nel campo di ciò che è relativo e problematico. Il lamento nichilistico sulle incertezze e sulle contraddizioni è perciò solo l’altra faccia di una sete di dominio senza limiti. Altra faccia del rifiuto di accedere e di accettare il grembo inaudito, ma radicalmente accogliente dell’Essere.

Chi ha conosciuto Severino può testimoniare (chi scrive è stato suo studente e poi suo collega insegnando filosofia teoretica) il tratto affabile e signorile della sua personalità, sempre rispettosa degli altri, sempre valorizzante. Ciò non strideva in lui con l’aspetto così perentorio ed eccentrico della sua proposta filosofica. Che, io credo, si è sempre formulata su un (confessato?) desiderio, alla lettera, di un altro mondo. È questo, in un certo senso, il fascino segreto del suo insegnamento, cui faceva da “contraltare” la relativa impenetrabilità ad interessarsi a fondo alla proposta di altri colleghi filosofi. Colleghi stimati, ma non interessanti per ciò che più conta, cioè l’uscire da un fuorviante nichilismo.

Ricordo un viaggio in treno da Roma a Milano, di ritorno da un concorso a cattedre di filosofia teoretica, in cui tentai, pieno di rispetto per il Maestro, cui mi legava una cordiale amicizia, di condurlo su vie diverse di interpretazione del pensiero greco e gli parlai dei miei studi sul neo-platonismo. Lui seguì  i miei discorsi e discusse i nodi delle questioni (allora il viaggio da Roma a Milano durava sei ore!). Ma non si smosse di una virgola dalle sue posizioni. Non, almeno così mi illudo, per la mia eventuale incapacità dialettica, ma perché in quell’occasione, e come sempre, Severino guardava altrove. 

Guardava altrove, cioè cercava un’inaudita e meravigliosa felicità di un pensiero coniugato all’essere.

Oggi mancano maestri, io credo, perché mancano uomini come Severino in grado di scommettere su una struttura del pensare non come accordo, ma come “Destino”, testimoniando.

Maestro è chi è in grado di suscitare un allievo, che magari non è d’accordo con lui, che magari gli è contrario, ma che lo ri-conosce. Per vie forse segrete imparentato nella stoffa di un desiderio, di un “Destino”.