“Quarant’anni dopo Reagan, una grande scommessa”. Il New York Times presenta con questo titolo il piano Biden sugli investimenti destinato nelle intenzioni del Presidente a impegnare gli Stati Uniti fino al 2030. Le cifre sono impressionanti: 2.250 miliardi di dollari che vanno ad aggiungersi agli interventi già sostenuti per affrontare la crisi. Un fiume di denaro destinato, tra l’altro, a rifare 20.000chilometri di strade, riparare o costruire 10.000 ponti e ricoprire gli States con una rete di 500.000 postazioni di ricarica delle auto elettriche. Ma ci sono anche 400 miliardi di dollari per l’assistenza ai disabili e agli anziani e 213 miliardi in case sostenibili e accessibili tanto per riaffermare il ruolo dello Stato previdenziale. Così, in un colpo solo, Biden vuol cancellare una storia che dura da quarant’anni, da quando Ronald Reagan, davanti al Campidoglio, inaugurò la sua Presidenza sillabando che “il Governo non è la soluzione dei nostri problemi. È il problema”. Al contrario, Biden ci dice che solo il Governo può fare quello che i privati non possono.
No, non si tratta di socialismo. Ma nella società americana, passata la sbornia di Trump, tende ad affermarsi, come a inizio del secolo scorso, un forte movimento di reazione allo strapotere dei super ricchi emersi vincitori da anni di politica liberista. Nel mirino di Washington e dell’opinione pubblica è finito Mark Zuckerberg, redditiero della pubblicità ma anche arricchito dalle fake news, assieme agli altri grandi della Rete in odore di monopolio; il Presidente si è è schierato apertamente con gli operai di Bessemer in Alabama che cercano di far entrare il sindacato in Amazon, colosso dalle mille teste che ha arruolato/assunto oltre mezzo milione di persone in poco più di un anno.
Soprattutto, tornano di moda le tasse. Il piano Biden, comunque giudicato insufficiente dalla sinistra democratica, prevede che, per finanziare le varie operazioni, la corporate tax torni al 28% per 15 anni. In questo modo i Democratici pensano di poter contenere l’aumento del debito pubblico che comunque è destinato a salire. Ma, almeno per il momento, a non trasformarsi nell’incubo dell’inflazione perché contenuto dalla repressione finanziaria praticata dai Governi: la gestione della stabilità della moneta, infatti, passa dalle banche centrali ai Governi (non a caso Janet Yellen è il ministro del Tesoro di Biden), mentre gli istituti di credito, stracolmi di liquidità creata dallo Stato, assomigliano sempre di più a filiali che erogano prestiti con garanzia pubblica.
Sul piano della politica industriale, la necessità di convertirsi al verde favorisce la ripresa dell’importanza dello Stato regolatore. La pandemia, poi, aiuta ad accelerare i processi. Solo lo Stato ha saputo finanziare lo sviluppo dei vaccini e guidare la loro distribuzione nella maniera migliore, che non è necessariamente quella più efficiente secondo i criteri dell’iniziativa privata.
Finisce nel mirino la globalizzazione, ovvero l’illusione di poter organizzare la catena produttiva e distributiva in chiave globale. Non solo perché, com’è successo nel canale di Suez, qualcosa può andare storto, ma perché nessuno vuole più dipendere dagli altri. Non lo vuole la Cina, impegnata a prodursi tutto in casa per non dipendere dagli altri, non lo vuole il gigante Usa, che mira a rimpatriare le tecnologie chiave per difendere la sua leadership e i chips per alimentare la rivoluzione digitale. Non lo vorrebbe nemmeno l’Europa, la più colpita dalla crisi della globalizzazione, ma fa quel che può. Come l’Italia, opportunamente la più lesta a riaffermare per merito di Draghi la fedeltà atlantica (non è certo per caso che solo oggi si scoprano i traffici russi a Roma) e a lanciare un’offensiva in sede Ue per plasmare una comunità più coesa, con un bilancio comune.
Inutile spingersi più in là. Quel che è certo è che, passata l’emergenza della pandemia, si entrerà in una fase di grande concorrenza economica tra le varie aree mercantili che cercheranno di sfruttare a proprio vantaggio le opportunità aperte dalla ripresa. Sarà una partita per giganti, in cui l’organizzazione sarà decisiva. Come negli anni Trenta. E speriamo che non si passi poi al decennio successivo.
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