Come già successo la scorsa estate, i comicAstri si cimentano con un racconto breve, la cui seconda e ultima parte sarà pubblicata il prossimo martedì.
Una premessa: alla fine di questa storia, che racconteremo dall’inizio perché non vogliamo complicare la vita a nessuno, forse sarà lecito pensare che non sempre, ma talvolta, o meglio ancora raramente eppure capita, c’è una corresponsione d’intenti tra l’orientare il proprio sguardo verso il basso e il suo esatto contrario, alzarlo verso l’alto. È capitato anche a voi? A noi no, ma la piccola vicenda che stiamo per narrarvi contempla un fatale incrocio di combinazioni all’apparenza casuali, eppure cariche di un destino insolito e buono.
Nessuna delle impalpabili riflessioni di cui sopra sfiorava la mente ancora fertile e vigile di donna Assuntina Lamorgana Comequandofuoripiove, nonostante gli ottantun anni di età e la fresca e lacerante vedovanza. Il suo Giangi (affettuoso e datato nomignolo del marito Gianpierluigi Barnabo della Barnaba) se n’era andato con la fine dell’estate, e senza tirarla troppo per le lunghe. Il consueto agosto a Courma (è comprovato come i ricchi – sia detto senza disprezzo – amino abbreviare i nomi, soprattutto quelli con la maiuscola) e la buona compagnia di amici fidati: su tutti, la Liliana col marito Agostino. Lei una sicurezza quasi complice per Assuntina, lui un imprenditore del settore farmaceutico a riposo; venuto grande col Giangi, non si erano mai persi di vista dai tempi delle medie: invecchiare insieme era stato un onore per entrambi; a completare il parterre valdostano, qualche ex principe del foro milanese (con rispettive signore) e le amate famiglie dei due figli, l’Anna (anche lei avvocato, ma per conto suo: non avrebbe mai accettato accuse di nepotismo) e l’Osvaldo (commercialista del popolo, come da definizione paterna; cosa volesse dire esattamente non aveva mai osato chiederlo a cotanto genitore: lo riteneva un complimento e tanto gli bastava). I cinque nipoti erano, per nonna Tina e nonno Giangi, la speranza di una vecchiaia ancora serena e con anni buoni davanti per sostenersi a vicenda. Ma il rientro a Milano anticipato ai primi di settembre e la stanchezza che l’uomo non aveva mai provato sin lì, suonarono oltremodo strane. La diagnosi, grazie ai buoni uffici di un amico ematologo, non si fece attendere più di tanto: avrebbe sparigliato le carte in maniera assai repentina, per giungere all’ultima mano.
Neanche il tempo di rendersene conto, aveva chiuso gli occhi un mercoledì mattina, giorno di mercato. Al Giangi piaceva un sacco curiosare tra le bancarelle, lo faceva spesso e volentieri, anche prima di andare in pensione. Solenni funerali alla presenza del sindaco (era fresco di Ambrogino d’Oro, ritirato con malcelato imbarazzo) e dell’Arcivescovo, che aveva conosciuto l’autunno precedente durante la visita pastorale alla sua parrocchia; da bravo cristiano, aveva premura dell’anima sua e di quella degli altri. Il suo lavoro d’altronde aveva a che fare con la giustizia, la pena e talvolta il perdono: variabili utili a cesellarsi una coscienza oltremodo scrupolosa. La sua lo era. Il Della Barnaba, come avrete oramai intuito, era stato un avvocato di grido, pressoché un’istituzione a Palazzo di Giustizia: stimato dai colleghi più maturi (c’aveva sempre un aneddoto da raccontare, e poi ancora un altro), temuto invece dai più giovani, alle prese con una carriera ancora da costruire, con i quali si era sempre dimostrato assai severo (come un buon padre deve essere, parole sue). Tuttavia, tolti questi ultimi, la sua proverbiale simpatia lo precedeva. E lo poneva in un’ideale classifica di gradimento molto in alto, secondo solo a quell’altra eminenza forense, di cui era stato buon amico fino alla sua morte (avvenuta ad inizio millennio), famoso per le sue battute apparentemente al vetriolo, eppure cariche di umanità, ma soprattutto per essere stato a lungo dirigente di una delle due squadre di calcio meneghine: quella per cui ha sempre tifato, e con una certa veemenza, anche il Giangi.
Come prevedibile, donna Assuntina non aveva affatto preso bene questa separazione troppo precoce, inimmaginabile fino a pochi giorni prima: una vita insieme, finita senza quasi un saluto, almeno un arrivederci. Il vuoto le aveva fatto mettere temporaneamente da parte le premure dei figli. Persino ad Emma, nuora delicata ed attenta, non permetteva troppe visite. Men che meno ai nipoti, che pure si sarebbero alternati volentieri a casa della nonna Tina. Avranno tempo più avanti, pensava. Amicizie totalmente al bando: affrontarle senza il Giangi le sarebbe costato troppo. Ogni parola, ogni gesto, un ricordo lacerante: meglio allora una consapevole solitudine, affrontata con Meryl (più una dama di compagnia che una badante) e Rufalla, una femmina di bulldog francese piuttosto sulle sue già di natura. Buone letture, tv quanto basta, in cucina due volte al giorno, soprattutto per vincere una sopraggiunta inappetenza: evidentemente sua, la Meryl no, lei era sempre stata una buona forchetta. E mica le era morto il marito. Per forza, non ce l’aveva.
Fu verso la metà di ottobre, quando talvolta il maglioncino di lana non basta a togliere il disagio dell’autunno che prepotente spintona via il caldo, che si ritrovò addosso, quasi senza accorgersene, il piacere di rimanere fuori, sul suo attico: il quinto piano della palazzina regalava colori vivi e inquadrature spettacolari; su tutte, le Prealpi al tramonto toglievano il fiato; sotto, il brulicare della gente, indaffarata a farsi i fatti propri, sembrava lontano, ma non abbastanza da non permettere ad Assuntina di farsi delle domande, generiche, forse un po’ annoiate, ma curiose e immaginifiche.
“Ma quello lì in giacca e cravatta che parla da solo… avrà gli auricolari? E a chi starà telefonando? Sicuramente alla moglie: le avrà fatto le corna e starà inventandosi delle scuse. Inutili, noi donne intuiamo al volo…”. “E quei due ragazzini che si baciano come se fossero lì da soli? Ma è il caso? Dagli tempo: quelli lì non mangiano il panettone insieme …”, alludendo alla fugacità degli ardori giovanili. La Rufalla ascoltava indifferente questi pensieri ad alta voce, non che alle parole potesse dare un gran peso. Di questo e molto altro ancora si riempivano le giornate dell’Assuntina: ma alle due ore sul balcone (lei lo chiamava così, ma che lo crediate o no, era una piazza d’armi!) la mattina, e alle altre due al pomeriggio, ci rinunciò davvero raramente, nei mesi a seguire.
Così che un giorno, sarà stato un po’ prima del ponte dei morti, sarà stato un po’ prima delle otto (un orario nel quale le persone cominciano ad affaccendarsi, anche quelle che non hanno niente da fare), lo sguardo di donna Assuntina fu attirato verso il basso da un ombrello aperto e in movimento (piovigginava, ma poco) sul quale c’era stampata una grande E gialla in campo nero, e dal quale sbucavano alternandosi tra loro le punte di un paio di scarpe da tennis arancioni (per l’Assuntina qualsiasi tipo di calzature sportive erano da considerarsi “da tennis”). Quale fosse il motivo di tanta curiosità non è dato a sapere. Ebbe persino la tentazione di scendere con l’ascensore per inseguire il tipo, e magari attaccargli bottone, come si dice a Milano. Solo il doloroso periodo che stava passando la trattenne dal farlo. Ma il pensiero ricorrente le tornò più volte in giornata. Vai a capire dove nascono e come si formano le idee…
Fu così che la mattina seguente, intenta oramai come da consuetudine a osservare il mondo sottostante, a donna Assuntina parve, più o meno alla stessa ora del giorno precedente (la giornata era uggiosa, ma non pioveva), di riconoscere il medesimo paio di scarpe arancioni. Appartenevano a un ragazzino dall’apparente età (viste dall’alto le cose non sempre si mostrano per ciò che sono) di dieci o undici anni. “È lui, ne sono certa” si disse alludendo al giorno prima e all’ombrello con la grande E gialla. E si fece venire un’idea per il giorno successivo, venerdì.
(1- continua)