Volete provare a chiedere a un bambino cosa sogna di fare da grande? Troverete tutt’altro tipo di risposte rispetto a quelle che vi avrebbe dato all’inizio di questo singolare anno di grazia. E cosa risponderà, oggi? Che vuol fare il calciatore? Salvatevi in corner con un’altra risposta, ormai è un’aspirazione messa in quarantena. L’astronauta? Ahi noi, siete fuori rotta. L’influencer? In materia non siete molto… Ferragni!



Oggi in cima ai desideri delle nostre giovani leve si stagliano ben altre figure, prima fra tutte quella del virologo. Ebbene sì: moderno cavaliere senza macchia e senza paura, che si può permettere di fare la voce grossa con quegli infinitesimi (ma solo di dimensioni, non nella sostanza) parassiti della società che sono i virus. Ma il virologo (che quando decide di fare più paura vuole che lo si chiami epidemiologo) è davvero la professione di domani?



Lo confermerebbe un recente sondaggio condotto tra i ragazzi italiani under 14 da Arci-Stufi (di sentir parlar male dei giovani): alla domanda “Quale palco ti piacerebbe calcare da grande?”, il 2% ha risposto “il soppalco” (intendendo con ciò la predilezione per la professione di geometra), il 7% ha scelto “il palcoscenico” (perciò la carriera di attore), ma una quasi bulgara percentuale di pischelli (addirittura il 91%) ha optato per la voce “Lopalco”, con evidentissimo riferimento a Pier Luigi Lopalco, l’ormai notissimo consulente della task force anti-pandemia della Regione Puglia.



Medesimo il gradimento tra le nostre già scafate signorine: una ricerca condotta tra le diplomande di terza media in quel di Santa Maria Capua Vetere ha mostrato come solo il 3% delle ragazzine vorrebbe calcare le orme dell’attrice e presentatrice Roberta Capua; l’altro 97% sogna già chiarissimamente di voler assurgere ai fasti di una Ilaria Capua. Che di professione, manco a farlo apposta, fa la virologa.

Rebus sic stantibus, quali caratteristiche deve possedere un virologo? Se uomo, deve essere virile; se donna, virago. I giovani virologi, quando già esperti, sono definiti virgulti. Quelli attempati, che a fine carriera scelgono di fare da guida ai più inesperti, sono chiamati con titolo onorifico Virgilio. Generalmente, il grande virologo non stronca, evira; non sbanda, svirgola. Ma al contempo è virtuoso e virtuale, affascina con i virtuosismi del suo lessico, da droplet a immunità di gregge, da molecola killer a zoonosi. Quando scrive, abbonda di virgole. Nel momento in cui esplicita un concetto a voce, deve evidentemente aprire e chiudere le virgolette. La lotta che ha intrapreso contro un nemico tanto invisibile quanto ostile lo porta a cambiare opinione a ogni piè sospinto: nel gergo scientifico (stavolta preso in prestito dalla marina) si chiamano “virate improvvise” o “virate a U”.

Come si diventa virologi? Scontato: studiando virologia, una scienza che si impara su libri minuscoli, esattamente come i virus, ai quali sin da subito non deve essere concesso vantaggio alcuno. La migliore università al mondo è indiscutibilmente quella di Viru Viru, in Bolivia; pure l’Università di Virginia Beach, dove ogni giorno è possibile una full immersion in un mare di virus, batteri e agenti patogeni che vi sono coltivati, è molto considerata dalla comunità scientifica.

Il successo che i virologi hanno ottenuto in Italia e nel mondo è pressoché unanime. Le nostre tv nazionali non fanno eccezione. In effetti, dal 21 febbraio in poi sono stati proprio i virologi a dominare la scena: una presenza pandemica (non troviamo aggettivo più appropriato) su tg, programmi d’intrattenimento o d’approfondimento. Forse, un’opportunità mancata è stata quella delle trasmissioni sportive: la passione per i virologi avrebbe permesso il lancio di una raccolta, tipo figurine Panini, con le immagini di tutti i virologi italiani. Al posto degli stemmi delle squadre, quelli degli ospedali e dei centri di ricerca dove operano.

Il database di articoli scientifici Scopus ha stilato la classifica dei virologi più bravi del mondo. Al primo posto trionfa l’americano Anthony Fauci, a capo del super-dipartimento voluto da Donald Trump per combattere il coronavirus negli States. Fauci è molto preparato ed è abituato a non mandarle a dire. I rari colleghi che si sono arrischiati a sostenere un contraddittorio con lui, si sono visti costretti a recedere per non essere mangiati vivi. Nella comunità scientifica a stelle e strisce, non a caso ci si augura di non finire mai nelle sue Fauci.

Menzione particolare merita un altro virologo americano: Robert Gallo. Uomo di terra e di campo, perciò di laboratorio, nel quale sembra ogni giorno rinascere, se non addirittura ringalluzzire; ama muoversi con passo un po’ impettito, usando talvolta i toni saccenti di chi ne sa sempre una in più. “Alza un po’ troppo spesso la cresta” affermano colleghi maliziosi (forse anche invidiosi della sua fama?); “un Gallo che fa il gallo nel suo pollaio” aggiungono altri che si sentono “beccati” dai suoi richiami per qualche cosa andata storta. Se i difetti non sono esenti dall’uomo, ne vanno pure esaltati i pregi. L’ultimo ad andarsene alla sera (dopo il canto del… Gallo), sempre il primo a timbrare il cartellino la mattina, quando il sole ha ancora da sorgere (chicchirichiii!).

Tra gli epidemiologi nostrani, sarebbe sin troppo facile (in un’ideale trasposizione dagli Usa all’Italia) passare da Gallo a Galli, virologo dell’ospedale Sacco di Milano, che di nome fa Massimo. Tra tutti citeremo invece Arnaldo Caruso, presidente della Società Italiana di Virologia, che vanta una serie di recenti scoperte sul Covid-19 di ottimo… tenore.

Un fitto e tremendo mistero avvolge e circonda la vita dei virologi: una volta finita la pandemia, si aprirà un’altra fase, non meno complicata della precedente. Chi riuscirà a scoprire l’Elivir di lunga vita? Che altro non è se non la magica pozione che scongiurerà il ritorno nell’anonimato per tutta la categoria epidemiologica. La corsa è già aperta…