Siamo nel pieno dell’anno dedicato a san Paolo. Di tanto in tanto qualche improvvisato teologo ed esegeta spara sui quotidiani la sua personale interpretazione delle lettere dell’apostolo delle genti. Di solito si tratta di rimasticature di vecchie teorie che fanno del convertito sulla via di Damasco l’arcigno «inventore» del cristianesimo o, protestanicamente, il paladino della fede autentica contro le deviazioni cattoliche. È quindi essenziale scoprire il vero volto dell’ebreo di Tarso, persecutore dei cristiani e poi, in forza di una personalissima esperienza di Cristo, annunciatore instancabile del Vangelo, a costo del martirio, subito a Roma.
Forse nessun autore è più adatto a comprendere la figura e il pensiero di san Paolo di Heinrich Schlier. Il suo denso Linee fondamentali di una teologia paolina (Morcelliana 2005) è un capolavoro di sintesi, mentre i due monumentali commenti alle lettere agli Efesini e ai Romani (entrambi di Paideia) introducono alla comprensione analitica di questi due fondamentali testi. Sono stati tradotti anche scritti più divulgativi, come La lettera ai Filippesi (Jaca Book 1993) e altri studi di esegesi neotestamentaria.
Val la pena parlare di Schlier anche perché proprio in questi giorni, precisamente il 26 dicembre, ricorre il trentesimo anniversario della sua morte. Schlier era nato nel 1900 in una cittadina della Baviera, da famiglia luterana. Egli stesso divenne pastore luterano e insegnante di esegesi; materia nella quale tenne per anni la cattedra all’università di Bonn. Proprio lo studio dei primi documenti scritti del cristianesimo lo ha condotto alla conversione al cattolicesimo, ufficializzata nel 1953 a Roma.
Egli stesso ha raccontato – in uno scritto intitolato Breve rendiconto (Nuova Omicron 1999) – le ragioni che lo hanno portato ad aderire alla Chiesa cattolica, proprio lui che era uno dei più apprezzati studiosi di quel san Paolo che Lutero aveva eretto come vessillo contro il cattolicesimo. Schlier inizia il racconto della propria conversione con queste parole: «La strada che conduce alla Chiesa non me la sono aperta da solo, l’ho presa. Era la strada che mi era data; ma era anche la strada che dovevo seguire». Dichiara poi di aver voluto spiegare le ragioni della propria conversione al cattolicesimo non per «soddisfare una pia curiosità», ma per «portare una testimonianza di verità». Egli non sta quindi a narrare tutte le varie vicende personali che lo hanno portato dal luteranesimo al cattolicesimo, ma si concentra sulle ragioni che lo hanno convinto proprio a partire dallo studio del Nuovo testamento e di san Paolo in particolare.
Tra queste ragioni credo che ce ne sia una da riportare, perché particolarmente interessante nel contesto attuale. Ci troviamo, infatti, in un clima di rinascente spiritualismo, nel quale anche il cristianesimo rischia di essere interpretato – seppure in termini esteriormente elogiativi – come una delle tante possibili spiritualità intimistiche. Scrive, invece, Schlier: «Il Verbo si è fatto carne. Questa è stata la chiave che mi ha aperto alla comprensione sempre più chiara di tutto il cristianesimo. Ciò posto, tutto è pronto per comprendere la Chiesa romano-cattolica. È su questo che nella cristianità si sono divisi da sempre e anche oggi si dividono gli animi. Anche la Chiesa evangelica e la sua teologia riconoscono che il Verbo si è fatto carne. Ma non è pienamente riconosciuto ciò che questo comporta e non se ne tirano le conseguenze. Il farsi carne del Logos [il Verbo] significa la sua venuta nell’uomo Gesù e perciò nel mondo degli uomini come mondo suo e a servizio della sua rivelazione. È una venuta nell’uomo Gesù e nel suo mondo fino al punto che il Logos sempiterno, per il quale tutto è stato creato e illuminato, si cela ora nella storia “di carne” di questo mondo e attraverso la storia “di carne” di questo mondo si rivela come Logos: in questo e in nessun altro modo; ma proprio in questo modo la sua doxa, la sua luminosa realtà si lascia incontrare e si dà a conoscere pienamente e interamente. Perciò della carne, della sostanza storica del mondo e soprattutto delle strutture mondane non c’è niente che non possa essere mezzo, strumento, veicolo, abitazione dell’opera efficace del Logos che entra nella nostra storia e nel nostro mondo».
Quanto appena detto dimostra, agli occhi di Schlier, il valore del tanto deprecato “materialismo” della Chiesa cattolica. Aggiunge poi: «La parola è diventata “carne” e non parola». Da questo derivano le conseguenze che differenziano il cattolicesimo dal protestantesimo (e, aggiungiamo oggi, da tanto cattolicesimo protestantizzato): «Poiché il Verbo si è fatto carne e non solo parola, c’è ora non solo predicazione ma anche il sacramento; c’è il dogma e non solo la testimonianza; c’è anche santificazione e quell’andare di gloria in gloria di cui parla l’apostolo Paolo, e non solo l’attuarsi dell’esistenza nella fede; c’è infine la presenza reale di Cristo nella Chiesa, nella sua istituzione, nel suo diritto, nella sua liturgia e non solo il suo fuggevole balenare, a partire dalla Scrittura, nell’anima di un uomo».
In definitiva, «la Chiesa è un mondo. Come corpo di Cristo o come dimensione di Dio essa è concreto tempio, concreta città, concreta casa di Dio». Schlier trae da ciò un’altra importante conseguenza: «La Chiesa sta prima del singolo cristiano. Essa è corpo di Cristo: nei suoi membri, e perciò, da una parte, sempre più della somma dei suoi membri, e dall’altra anche sempre “prima” dei suoi membri. Essa è il corpo della testa, è il corpo del secondo, del’”ultimo” Adamo. E se, come uomini, da Adamo veniamo e in Adamo viviamo e anzitutto, ciascuno a suo modo, portiamo in noi l’impronta di Adamo, così che è lui che gli altri incontrano, come membra battezzate del corpo di Cristo veniamo da Lui, Cristo, e siamo in Lui, per “imitarlo” adesso, vivendo del suo corpo, e per portarne in futuro la sua “immagine”».