Il Concilio ecumenico Vaticano II, il ventunesimo nella storia della Chiesa Cattolica, è stato indetto da Giovanni XXIII, fra la sorpresa generale, il 25 gennaio 1959, esattamente cinquant’anni fa. Il lavoro degli oltre duemila vescovi di tutto il mondo che si sono riuniti in quattro sessioni fino alla solenne conclusione dell’8 dicembre 1965, è condensato in quattro Costituzioni, tre Dichiarazioni e nove Decreti. L’ampio ventaglio di interessi che questi documenti dimostrano – così come lo dimostra l’immenso materiale di preparazione e le discussioni che hanno portato alla formulazione definitiva dei testi conciliari – è riconducibile attorno al tema fondamentale della autocoscienza che la Chiesa ha di se stessa e dei suoi rapporti con il mondo e la storia.
La penetrazione nel corpo della Chiesa del messaggio conciliare, la sua «recezione» come si usa dire in termine tecnico, è un processo lungo e certamente ancora in via di realizzazione. Nell’immediato periodo post conciliare ha prevalso quella che Benedetto XVI ha chiamato «ermeneutica della discontinuità e della rottura». Secondo questa interpretazione il Concilio avrebbe segnato una svolta radicale rispetto alla bimillenaria tradizione della Chiesa, mettendone persino in discussione alcuni elementi essenziali. D’altro canto i tradizionalisti hanno opposto un netto rifiuto ad ogni innovazione, aggrappandosi alle forme del passato. Ora, finalmente, si sta facendo largo una «ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa». La questione decisiva è, dunque, quella di comprendere bene in cosa consista questo «rinnovamento nella continuità».
Il Vaticano II ha decisamente superato una concezione della Chiesa come istituzione statica e del cristianesimo come puro insieme di dottrine e precetti morali. Ha riscoperto, cioè, che la Chiesa è anzitutto fenomeno esistenziale di carattere comunitario – di qui le definizioni di essa come «corpo di Cristo» e «popolo di Dio» – e ha quindi presentato il cristianesimo come avvenimento vitale, mai richiudibile in pure definizioni teoriche o esigenze etiche. In definitiva, essendo la Chiesa la continuità dell’evento di Cristo nella storia, ne ripresenta tutte le caratteristiche vitali del suo inizio.
La Chiesa, dunque, è anzitutto una vita. E la continuità di questa vita non può derivare dalla pura riproposizione delle sue forme istituzionali o dei suoi contenuti dottrinali. Occorre che l’evento straordinario degli inizi – la presenza di Dio diventato uomo – sia sperimentabile oggi secondo tutta la sua inesauribile capacità di coinvolgimento e di liberazione. Le istituzioni, allora, sono flessibilmente aperte alla novità di inedite forme aggregative e la dottrina è continuamente ricompresa dall’interno dell’esperienza quotidiana ed in essa verificata.
La garanzia ultima che questo processo di crescita della vita ecclesiale avvenga nella continuità e non nella rottura è dato dall’autorità. Proprio quella autorità che molti nel post Concilio avevano messo in discussione. Proprio quella autorità che, invece, in questi cinquant’anni, ha saputo mantenere salda la barca di Pietro in un mare non privo di burrasche.