Capita, a volte, che certi libri, pur essendo scritti piuttosto lontano nel tempo e in condizioni storiche e culturali differenti, risultino straordinariamente pertinenti con la propria esperienza attuale. Mi è successo leggendo Escatologia morte e vita eterna di Joseph Ratzinger (Cittadella Editrice, 2008). Il testo è del 1977 (prima edizione italiana 1979) ed è l’ultima opera «da teologo» di Ratzinger, da poco nominato vescovo di Monaco; un’opera che egli stesso definisce come la sua «meglio riuscita». Il clima di allora si percepisce soprattutto nell’accenno al marxismo ampiamente penetrato anche nella Chiesa come versione attualizzante e inevitabile della speranza cristiana.
Cosa mi ha fatto percepire la profonda attualità di questo libro? Il fatto è che l’ho letto proprio nei giorni in cui scoppiava il «caso Eluana» e, quindi, il tema delle «cose ultime» (è questo il significato della parola escatologia; e la morte, tra le cose ultime, è quella che la vicenda della donna di Lecco ha messo di fronte a tutti in maniera travolgente). Inoltre, l’ho letto in un periodo in cui vicino a me, e credo vicino a tutti, i morsi della crisi economica, lo sconcerto per gli attacchi alla Chiesa per la storia dei lefebvriani, gli echi della guerra a Gaza appena finita (se poi è finita davvero), ponevano una grande domanda sul significato della speranza cristiana, della mia speranza di cristiano.
È la parola speranza quella che viene in fondo messa a tema partendo dalla riflessione sulle «cose ultime». Ed infatti molti echi di questo libro si trovano, aggiornati, nella seconda enciclica di Benedetto XVI, quella Spe salvi che si interroga e ci interroga sui contenuti e sull’essenza della seconda virtù teologale, la speranza appunto, e sulla sua efficacia nella storia degli uomini. Echi della prima parte di questo volume si trovano invece nel capitolo che Benedetto XVI da dedicato al «Regno di Dio» nel suo Gesù di Nazareth.
Speranza, dunque, è il filo rosso di questo libro, che è distribuito in tre capitoli. Nel primo si analizza il «problema escatologico»; se, cioè, il cristianesimo sia in fondo solo una delle tante attese messianiche del periodo in cui Cristo è vissuto; un’attesa sostanzialmente fallita come tutte le altre. È evidente che solo il superamento di questa visione consente di dare significato al cristianesimo oggi. L’alternativa è ributtarlo in un passato sostanzialmente irraggiungibile e, pertanto, di fatto per me inutile. Il secondo capitolo si concentra sull’aspetto individuale delle «cose ultime», in sostanza l’anima e la sua immortalità. Colpisce, leggendo queste pagine, il metodo usato da Ratzinger. A fronte delle più spericolate innovazioni teologiche, egli tende sempre a mostrare come la fedeltà al dogma della Chiesa consenta una visione delle cose non solo più attenta alla tradizione, ma indubbiamente più capace di considerare tutti i fattori, anche quelli posti dal procedere della riflessione culturale e scientifica. In questo senso il volume, che è di lettura impegnativa anche se scritto con un linguaggio piano, si pone come difesa della fede semplice del popolo di Dio, in opposizione agli avventurismi degli intellettuali. L’ultimo capitolo si occupa della «vita futura», cioè dello strabiliante articolo del Credo in cui professiamo la resurrezione della nostra carne e la nostra vita futura: inferno, purgatorio, paradiso. Con molta chiarezza Ratzinger smonta il facile cliché per cui il cristianesimo, affermando appunto tutte queste cose, implicherebbe una svalutazione della vita storica. Anzi, proprio questa apertura su una dimensione eterna, che si fonda sul fatto storico della resurrezione di Cristo e sulla sua continuità nella storia, consente la valorizzazione completa del presente e del tempo, senza che essi si trasformino in gabbia, in prigione. In altre parole: la speranza è un «attender certo della gloria futura» (Dante), tutta fondata su una certezza presente e, quindi, di questo presente liberamente amante.