Sabato scorso Google si è impiantato per quasi un’ora. Qualsiasi richiesta tu gli facessi, lo schermo ti rispondeva che il sito che stavi per visitare era pericoloso per il tuo computer. Solo i più abili smanettoni hanno trovato una soluzione per aggirare l’ostacolo. Gli altri, milioni di altri, sono stati lì imbambolati, impotenti. Calava improvviso sullo schermo e nella testa uno strano, inquietante silenzio informatico e comunicativo.
Il silenzio non lascia tranquilli. Come trovarsi improvvisamente in un folto banco di nebbia ed essere costretti a rallentare, tirarsi diritti sul volante che prima si manovrava rilassati, allungare il collo nella speranza di intravvedere la segnaletica in mezzo a quel mare bianco e opaco. O come, passeggiando su un ghiacciaio, trovarsi di fronte a un largo crepaccio: ti arresti, trattieni il fiato e poi butti lo sguardo in quell’abisso. Insomma, il silenzio – «quello infinito silenzio» di leopardiana memoria – ci costringe a sospendere l’abituale ovvietà dei pensieri, delle reazioni e delle emozioni e ci propone decisamente una dimensione sconosciuta, una misteriosità che non avevamo previsto, un’inspiegabile apertura sull’oltre.
Il silenzio fa paura solo quando oltre la crepa dell’ovvietà quotidiana non si intravvede che il nulla, il vuoto. Allora uno se ne sta davanti al computer che non funziona più come inebetito e, appunto, svuotato. Ma forse anche con la vaga, e sana, sensazione che quello che stavano cercando non è poi così importante, che ci sarebbe ben altro cui pensare e a cui dedicarsi.
Qualche hanno fa ha avuto un impensabile successo il film tedesco Il grande silenzio. Il regista era stato ospite dei monaci della Grande Cerosa e ne aveva filmato la vita, completamente trascorsa nel silenzio. Poi aveva montato il materiale in un film di tre ore: neanche una parola (se non una brevissima e commovente intervista finale a un vecchio monaco cieco) o una nota musicale. Per quei monaci – che comunque, come ognuno di noi, devono pensare a farsi da mangiare, a tagliarsi i capelli, a procurarsi i vestiti – il silenzio non è affatto pauroso. Anzi, è lo spazio privilegiato per l’autentica espressione di sé. E lo è in quanto rapporto con Colui che abita la profondità delle cose e dei volti.
La nostra cultura e il nostro modo normale di vivere non amano il silenzio. Lo odiano perché lo temono. Ieri sulla metropolitana ero seduto a tre metri da una ragazza che stava leggendo il quotidiano; nello orecchie aveva una musica tanto frastornante, ripetitiva e ad alto volume che la sentivamo in tutto il vagone: chissà lei. Sembra impossibile starsene in silenzio, anche per brevi attimi. Eppure uscire dal rumore per mettersi di fronte, per citare ancora Leopardi, a «interminati spazi» e «sovrumani silenzi» sarebbe un impagabile esercizio di grandezza umana, di sanità del pensiero.
E se a costringerci è un’interruzione di Google, ben venga.