Quello di Marco Gervasoni (Storia d’Italia degli anni ottanta, Marsilio) è, a mia conoscenza, uno dei primi tentativi di ricostruzione organica di quel decennio che, come l’autore afferma nelle prime righe, è forse l’ultimo che sia «definito da una marcata identità», per cui è riconoscibile rispetto a tutti gli altri. La definizione di tale identità è esattamente quanto Gervasoni tenta di fare percorrendo cronologicamente lo svolgersi degli eventi e raggruppandoli in macro aree di interesse.



Il punto di partenza non poteva che essere il paragone con il decennio precedente, i terribili anni Settanta, dominati dallo scontro ideologico, dalla violenza terroristica, dall’invadenza del «politico» in tutti gli ambiti dell’esistenza. In capo agli Ottanta sta infatti il fenomeno del «riflusso», quella stanchezza della politica che, parallelamente, ha significato anche una riscoperta del privato, del desiderio personale, della volontà di soddisfazione immediata. Gervasoni guarda con simpatia questo fenomeno e critica il giudizio negativo che ne hanno dato, per diverse ragioni, i cattolici e i comunisti (anche se l’equiparazione delle «due chiese» appare piuttosto sbrigativa). Il riflusso dall’ideologia al privato avrebbe consentito di uscire dalla cappa degli anni di piombo. Anzi, addirittura, avrebbe favorito un clima di rinnovato orgoglio nazionale, rintracciabile, come fenomeno di massa, nell’entusiasmo generale per la vittoria della nazionale di calcio ai mondiali del 1982.



Dopo un decennio di contestazione generalizzata e di insicurezza, l’Italia – sulla scia di altre nazioni ed in primis l’America di Reagan – aveva anzitutto bisogno di «decisori» e di persone capaci, in tutti gli ambiti, di uscire dal pantano dell’insicurezza; ecco allora gli emblematici ritratti di Bettino Craxi, Cesare Romiti e Vincenzo Muccioli. Il ritorno al privato ha significato poi la valorizzazione dei consumi; l’«edonismo reaganiano» si è imposto anche nella penisola, nei modi di mangiare, di vestire, di fare vacanza; trionfano le «firme» di abiti e accessori come identificativi di appartenenza, si afferma il culto del corpo e prende sempre più piede la tecnologia di consumo.



Una particolare enfasi è posta da Gervasoni sui mutamenti della comunicazione televisiva. Ne sono indicatori, da un lato, l’incrementarsi dell’offerta (pubblica, ma soprattutto privata) e, dall’altro, la repentina trasformazione della comunicazione, che passa da statica e poco coinvolgente a dinamica ed aperta all’interlocuzione, a volte decisamente demagogica, della «gente»: talk show, inchieste in diretta, pubblico in sala, eccetera. Nel giro di pochi anni si costituisce – come titola un capitolo, seppure alleggerito da un punto interrogativo – un «italiano nuovo». Nuovo perché la distinzioni in classi sociali non appare più così rigida come in passato (la classe operaia perde la sua «centralità» e affiora una borghesia indifferenziata); nuovo perché persegue modelli inediti, il cui simbolo è lo young urban professional, meglio noto come yuppie; nuovo perché non si coinvolge più nelle vetuste liturgie politiche, ma in una inedita forma partecipativa, come documentano i movimenti pacifista ed ecologista.

La parola «movimento» è proprio una di quelle che meglio si attaglia a descrivere la temperie del decennio. L’autore lo dimostra analizzando in brevi capitoli il mondo cattolico (il focus è sul pontificato di Giovanni Paolo II e su Comunione e Liberazione), quello della cultura, con la nascita del cosiddetto «postmoderno», e, più distesamente, quello della politica, dove si afferma la sua «spettacolarizzazione», cioè la commistione dei ruoli tra politica, informazione e spettacolo (cui forse viene dedicata qualche pagina proporzionalmente di troppo).

 

Si arriva, così all’epilogo. Che è posto sotto il segno del muro, quello di Berlino che crolla alla fine del decennio e ne segna, in qualche modo, la fine. Mentre infatti sembrava che tutte le novità che si sono descritte dischiudessero un periodo di sicura stabilità, in realtà gran parte di quel mondo stava per crollare, travolto dalla crisi politica, dalle difficoltà economiche, dal mostrarsi effimero di molti miti. Certamente una profonda evoluzione era comunque intercorsa. E, forse, l’icona più descrittiva di quanto successo rimane la nube di Černobyl: un mutamento, che è un indebolimento, della struttura stessa delle attese, degli ideali, degli stili di vita. Prodromo di un disincanto che spesso è finito con lo sfociare nello scetticismo.

 

Ho detto all’inizio che questo volume è un tentativo. Come tale ha i suoi vantaggi: leggendolo si è posti di fronte ad una serie di fenomeni che magari si erano dimenticati e ad una loro connessione cui non si era pensato; un po’ come sfogliare dieci anni di un quotidiano in poco più di duecento pagine. Questo, però, è anche il limite del libro. Resta la percezione di una certa sommarietà (Gervasoni ricostruisce la sua storia quasi solo sugli editoriali di Repubblica) e approssimazione (il paragrafo su Cl è ampiamente insufficiente e con qualche errore, come per esempio far risalire la prima edizione del Meeting di Rimini al 1984 mentre è di quattro anni prima). Pochi sono i documenti di prima mano e quasi inesistenti quelli d’archivio. Un tentativo che è uno spunto.