Riccardo Secchi non è un pittore famoso. Eppure (o, forse, proprio per questo) suggerisco caldamente di vedere la sua mostra, che si terrà dal 4 al 14 marzo presso il Centro Servizi Camerali “Galeazzo Alessi” di Perugia. Lo suggerisco perché conosco molto bene Ricardo e il valore del suo lavoro. E perché mi ha stupito profondamente come la sua vena pittorica sia riemersa dopo essere stata per anni riassorbita nelle profondità carsiche di una vita completamente dedicata all’insegnamento.
Qualche nota biografica può aiutare a capire. Riccardo Secchi nasce a Reggio Emilia nel 1954. Il suo omonimo nonno era stato un valente scultore e il padre uno straordinario “manovale” del legno, una di quelle persone che con un semplice cesto di frutta finta, ottenuto con i più diversi tipi di legname, ti fa capire come si può guardare la materia più apparentemente normale con lo sguardo curioso di chi si entusiasma per le differenze, per le caratteristiche specifiche di ogni cosa, per la loro irripetibilità.
Trasferitosi a Perugia, Ricardo Secchi si iscrive alla locale Accademia e, soprattutto, frequenta assiduamente la compagnia di Bill Congdon, che allora aveva studio nella vicina Assisi. È l’introduzione definitiva in una particolare – e non certo valorizzata dai media e dalla critica – percezione dell’arte: quella che rispetta umilmente il primato della realtà, delle «cose», quella che si piega nella sofferta ricerca del permanente sotto l’effimero, dell’immagine sotto l’apparenza.
La produzione giovanile di Riccardo Secchi è quasi esclusivamente scultorea; ne sono testimonianza alcuni cicli di formelle e qualche Via crucis. Poi altre incombenze prendono il sopravvento: Secchi si dedica completamente all’insegnamento nelle scuole superiori. Ha pur sempre a che fare con l’arte, ma pare che si tratti ora solo di parlare dell’arte altrui o, al massimo, di insegnare i rudimenti del disegno.
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Ma il fiume carsico non cessa di scorrere. E senza preavviso – «come un bel giorno», direbbe Camus – riemerge alla soglia dei cinquant’anni. Da allora, dalle prime vedute dalla finestra in cui si intravvede potente la lezione di Congdon, il fiume non si è più fermato. Ecco gli sguardi sui dintorni poco frequentati di Perugia, sempre caratterizzati dalla sorpresa di un particolare: una cascina rosa in mezzo ad una valle sperduta, un albero stranamente fiorito, una inedita increspatura del Trasimeno.
Ecco le vedute della città col suo millenario passato, le chiese che emergono dal buio o la valle di fronte a casa in fondo alla quale troneggia il Subasio e, a mezza costa, la francescana Assisi. Ma città è anche una fabbrica dimessa, ormai ridotta a rudere un po’ come tutta la civiltà industriale che ha rappresentato e, forse, come la nostra civiltà in quanto tale.
Scrive, infatti, il critico Emidio de Abentiis nella prefazione al catalogo, che nelle opere di Secchi affiora «una particolare sacralità, riconoscibile in certi precari silenzi e in certi flebili trasalimenti in cui pare avvertibile un acuto senso della fragilitas delle cose del mondo, siano esse umane o della realtà naturale: una fragilitas, però, che non pare disgiunta dalla fiducia in un Dio salvifico in grado di dare un senso alla nostra condizione così malsicura e difficile di esseri umani».
Ecco, infine, i ritratti, l’ultima frontiera della ricerca di Secchi. La voce intensa – per chi sa ascoltare – delle cose, la loro domanda di una rigenerazione che ne pacifichi la precarietà si coagula ora in uno sguardo, in un movimento della testa, in un mezzo sorriso dell’uomo, il vertice cosciente del creato. La promessa della giovinezza, per la lunga pazienza di anni, non è andata delusa.
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(Rudere rosso, 2005, olio su tavola, cm 80 x 100)
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(Ritratto maschile, 2006, olio su tavola, cm 39,5 x 30)
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(Bosco sacro 2, 2009, olio su tavola, cm 70 x 90)
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(Arbor una nobilis, olio su tavola, 2009, cm 50 x 72,5)
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(Rudere con torre, 2005, olio su tavola, cm 70 x 80)
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(Trasimeno con albero, 2009, olio su tavola, cm 60 x 80)