Nella migliore tradizione dei pamphletaires francesi, Fabrice Hadjadj ci offre col suo La terra strada al cielo (Lindau 2010) un testo di scioltissima leggibilità, pur essendo il tema molto impegnativo, e ricco di spunti folgoranti, che inducono a inesauribili approfondimenti.

Il tema è esplicitato nei tre sostantivi che costituiscono il titolo. Anzitutto la terra. Il giovane filosofo francese è un realista accanito. Sciogliendosi dai legami di un intellettualismo asfissiante e di un idealismo che porta al nichilismo, riafferma che il punto di partenza di ogni itinerario di conoscenza è il dato reale; reale come un fiore che si vede con sorpresa sbocciare nel giardino (e la sua trattazione è accompagnata dall’inizio alla fine dal dente di leone; quell’erba con le foglie a sega che cresce nei nostri campi e che produce prima un turgido fiore giallo e poi quella palla eterea coi semi che si soffiano via), reale come il proprio vicino di casa che porta il papillon. Partendo da questo umile riconoscimento, la ragione umana arriva alle vette della metafisica, perché «le radici del dente di leone affondano nel mistero» (p. 13).

La prima parte del saggio è dunque una carrellata sul pensiero moderno, tesa a dimostrare che «la metafisica, lungi dal farci smarrire in un retromondo nebuloso, nasce dalla terra e ci riconduce ad essa, dandoci sempre nuove ragioni per meravigliarci» (p. 14). Hadjadj critica con la leggerezza acuminata di un rasoio il dubbio sistematico di Cartesio per cui «la terra ferma non è un terreno abbastanza sicuro» (p. 21), il pensiero kantiano che «intrappola ogni cosa nell’immanenza carceraria dell’Io» (p. 24), lo scientismo che produce relativismo: «A ciascuno la sua verità» e lo storicismo: «La verità muta col tempo» (p. 25), che altro non sono che «cerebralismo allucinogeno» (p. 26).

Di contro c’è, appunto, il realismo della metafisica che «afferma il primato dell’essere sull’idealità» (p. 28) fino alla scoperta che «il corpo umano è costitutivamente destinato a questo: conoscere e amare l’essere» (p. 29), per cui «la terra, essendo il punto d’appoggio della nostra intelligenza, è il trampolino per la nostra elevazione» (p. 32).

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Dopo aver mostrato i limiti della posizione manichea, di quella panteista e di quella agnostica, Hadjadj conclude la prima parte del saggio riproponendo la sorprendente prospettiva teologica per cui il rapporto con la terra/realtà è il necessario punto di partenza per la scoperta di Dio che la costituisce «come se l’abisso si aprisse sulla superficie delle cose» (p. 51). «Si deve concludere che l’intelligenza divina impregna la terra in ogni luogo, e che ogni istante la terra ci parla di Dio, nostra Causa prima e universale. […] La terra è quindi l’annuncio e la strada che conduce a Dio. Coloro che non lo vedono non sono amici della terra, ma complici del vuoto» (pp. 53-54).

 

La seconda parola chiave è: cielo. Esso è la prospettiva che lo sguardo ragionevole sulla terra apre all’uomo non accecato ed è la patria vera dell’itinerario umano. È in questa seconda parte del saggio che Hadjadj mostra come la concezione ultima del rapporto con la realtà determina comportamenti storici e decide di ampi movimento anche sociali. Il cielo come patria, ad esempio, si oppone sia al radicamento tradizionalista nella propria terra avita (improponibile nella odierna società globalizzata, di cui l’autore stesso, di origini nordafricane, è un esempio), sia allo sradicamento apolide e astratto di una «libertà senza basi né memoria [che] crede di innalzarsi al cielo e invece si perde nel vuoto» (p. 66).

 

La vicenda del popolo ebraico, iniziata con la richiesta di Dio ad Abramo di lasciare la propria terra è l’emblema di ogni cammino umano che non è tanto uno «spostamento locale», ma un «movimento spirituale […] che esige un legame intimo con la terra» per «guadagnare la patria» (p. 73), perché la «partenza è un ritorno» (p. 74). Si tratta, quindi, di «abitare questo paese come pervaso dalla presenza di Dio e come strada per l’incontro con Lui, e trovare già qui quell’Altrove che dà forma ad ogni cosa» (p. 78).

 

Ciò ha implicazioni sul rapporto stesso con la natura (al riguardo l’autore fa un’interessante analisi dell’ecologismo), sulla politica («poiché il Cielo è sorgente e culmine di ogni patria, la Fede non ci distoglie dalla cura della città terrena, anzi, ci spinge a impegnarci al massimo grado», p. 101), sull’ideologia del divertimento (l’evasione dallo stress di cui sempre si parla e che Hadjadj manda al diavolo: «È il raccoglimento che ci manca», p. 84).

 

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All’interno dell’analisi della chiamata a lasciare la terra nel senso di penetrare nelle sue radici trova posto anche un capitolo sul rapporto tra il cristianesimo e le varie culture via via incontrate nella storia. Hadjadj rifiuta ogni accusa fatta al cristianesimo di aver omologato in un insieme indistinto le culture altre da sé, pur non nascondendo l’esorbitante pretesa cristiana, che è quella di «impadronirsi del vostro cuore, cioè di conquistarvi senza spezzare né la vostra intelligenza né la vostra volontà, ma semmai rafforzandole» (p. 89). Ecco perché «nella Chiesa ognuno diviene maggiormente se stesso insieme agli altri», producendo «la più grande differenza nell’unità più profonda» (p. 96).

 

La terra, dunque, rispetto al cielo è una strada. Ecco la terza parola del titolo. Essa non è tematizzata in una parte specifica del volume; lo percorre dall’inizio alla fine. Perché questa strada si chiama cristianesimo. La strada di Cristo che ascendendo al cielo si immerge «nelle nostre viscere terrose» (p. 115), fino all’impensabile identificazione del sacramento.

 

Hadjadj conclude con la citazione della regola di san Benedetto Ora et labora, che traduce così: «Traccia ogni solco come se fosse una preghiera, canta ogni versetto come se fosse un seme, e scava, scava nel profondo di ogni cosa fino a Dio» (p. 122).