La recensione stricto sensu di questo volume (Mario Prignano, Urbano VI. Il papa che non doveva essere eletto, Marietti 1820) è presto fatta. È la storia di un papato durato circa undici anni; un papato drammatico per le circostanze in cui ha avuto inizio e ancora più terribile per come si è svolto e per le conseguenze cha ha avuto. Non voglio togliere al lettore il piacere di seguirne le complicare ed avvincenti evoluzioni attraverso le pagine documentate e ben scritte (l’autore è un giornalista e lo si sente) di Mario Prignano. Tuttavia qualche informazione va data.



Il protagonista è Bartolomeo Prignano (avo dell’autore). Alla morte di Gregorio XI, nel marzo del 1378, il grande problema nella Chiesa è la conferma o meno del ritorno della sede papale da Avignone – dove era stata per settant’anni, sotto stretta tutela della corona francese – nella città eterna. Il papa appena defunto, francese anche lui come i suoi sei predecessori, è sì ritornato a Roma, ma tutto fa pensare che la cosa possa non durare. Lo lascia presagire soprattutto il fatto che ben 12 dei 16 cardinali chiamati ad eleggere il nuovo papa sono francesi, che preferiscono senza dubbio le rive del Rodano a quelle del Tevere. Ma il popolo di Roma non è, ovviamente, dello stesso avviso; il papa era tornato in città ed il suo successore non doveva neppure pensarci di andarsene di nuovo; il nuovo pontefice deve essere romano o almeno italiano. Le pressioni sui cardinali che devono ritirarsi in conclave sono pesanti e spesso violente. Alla fine risulta eletto, mentre la folla invade la sede del conclave, un arcivescovo che non è neppure cardinale: Bartolomeo Prignano, appunto, che prende il nome di Urbano VI. Il quale cerca da subito di imporre un sistema di governo molto diverso da quello cui era abituata la corte avignonese, di cui lui pure era stato un funzionario.



Nel giro di poche settimane Urbano riesce ad inimicarsi gran parte del collegio cardinalizio che lo aveva eletto. Fino al punto che i cardinali gli si ribellano apertamente e, adducendo irregolarità nell’elezione per subita violenza da parte del popolo, dichiarano Urbano usurpatore del soglio petrino, provvedendo all’elezione di un altro papa. Cioè di un antipapa, come sostiene senza esitazione la più grande sostenitrice di Urbano, santa Caterina da Siena. La quale cerca anche di spingere il pontefice a riformare i corrotti costumi ecclesiastici, pur suggerendogli modalità di comportamento più miti di quelle che sono proprie del suo temperamento.



Ma Caterina muore di lì a poco e i complicatissimi problemi di politica italiana ed europea di fronte a cui si trova Urbano (come del resto il suo antagonista riparato ad Avignone) si aggrovigliano sempre di più. La cristianità – dall’impero germanico ai principali regni, dalle potenti repubbliche marinare alla più piccola cittadina del centro Italia, dal collegio cardinalizio agli ordini religiosi – si ritrova spaccata e invischiata in un turbine di alleanze contratte e tradite, di scomuniche e battaglie, tentati omicidi e rapimenti da far perdere la testa. In questo clima veramente fosco e crudele si è svolto tutto il pontificato di Urbano VI. Che si è concluso – forse con l’avvelenamento del pontefice – senza che lo scisma si fosse ricomposto. Anzi si è andato complicandosi ulteriormente, fino a sfociare nella grave questione del conciliarismo, cioè della dottrina che ritiene il concilio dei vescovi avere un’autorità superiore a quella del papa. Il libro, però si limita alla vicenda di Bartolomeo Prignano. È chiaramente una scelta dell’autore, ma forse un accenno agli sviluppi successivi, così come una maggiore attenzione al contesto spirituale dell’epoca, sarebbero stati graditi al lettore.

Personalmente due riflessioni mi hanno accompagnato nella lettura. La prima è la constatazione che veramente la Chiesa cattolica deve avere un fondamento ben più stabile della capacità umana degli uomini che la compongono e addirittura la dirigono per resistere a bufere come quella verificatasi durante il pontificato di Urbano VI. Se tradimenti ripetuti, errori di valutazione grossolani, crudeltà inaudite, simonia e nepotismo non hanno potuto far affondare la barca di Pietro, ci deve essere veramente una protezione divina che la sostiene. Forse è questo il significato dell’introduzione in tutta la Chiesa della festa della Visitazione di Maria, voluta da Urbano; era come riconoscere, in mezzo a infinite preoccupazioni terrene, che la Chiesa non potrà mai fondarsi sul successo di una qualche alleanza politica e che la stessa «roccia di Pietro» non sta solida per i suoi risultati umani, ma per l’intercessione di un’umile ragazza che della Chiesa stessa è madre e regina.

L’altra considerazione riguarda il fatto che Urbano VI si è fidato molto, e giustamente, della santità di Caterina da Siena. E già questo è sorprendente: che un papa accetti i consigli di una donna non ancora trentenne, le ubbidisca, la chiami addirittura a predicare alla sua corte è straordinario e commovente. Ed è altrettanto impressionante che poi il papa faccia delle mosse e compia delle enormi sconsideratezze che la santa avrebbe certo condannato. Non basta aver a fianco un santo per vivere da santi.