Sì certo, era un ubriacone. Be’ ha bevuto talmente tanto che era inevitabile finisse così. Un alcolizzato che si è ucciso lentamente come il Nicholas Cage di Via da Las Vegas che persa la famiglia si rifugia in una stanza d’albergo per bere fino a morirne. Colpa sua insomma. È un po’ triste vedere come anche gli appassionati di musica che si fregiano di collezioni di migliaia di vinili e che si arrogano di discernere di musica rock subiscano così superficialmente la vita degli artisti che abbiamo amato, fermandosi alle apparenze. Shane MacGowan è morto pochi giorni fa a 65 anni dopo una lunga malattia dovuta ai vizi e agli stravizi della sua vita intera: i genitori, quando era bambino, per farlo addormentare gli facevano bere Guinness. È pura tradizione irlandese, un gesto che appare sconsiderato, ma lo si capisce solo nell’ottica della disperazione che ha sempre accompagnato questo popolo meraviglioso. La famiglia di MacGowan era una delle centinaia di migliaia costrette a emigrare, lasciare la propria terra per fame e miseria, per non morire come i milioni di irlandesi sottoposti a genocidio sistematico dalla Corona Inglese che provocò una carestia a tavolino per sterminare quel popolo fiero e ribelle che rifiutava il dominio straniero.



Allo stesso tempo, la famiglia MacGowan era profondamente religiosa e anche questo è significativamente irlandese. Lo stesso cantante nella sua autobiografia racconta: “Il loro desiderio era quello di avere un prete in famiglia, invece che un ubriacone in famiglia. Sarebbe stato un passo avanti per tutti se fossi diventato prete”. A entrare in seminario ci pensò seriamente, poi però arrivò la grande ondata della musica punk che gli fece percepire la possibilità di esprimere la sua rabbia, la sua solitudine, la sua voglia immensa di vivere, ma quel sentimento gli rimase sempre dentro. Come accade quando si guarda indietro all’eredità dei musicisti che sono sinonimo di bottiglia e di attività illecite più estreme, molti potrebbero semplicemente ricordare MacGowan per il suo sorriso macchiato di alcol e sigarette. Ma dietro quel sorriso c’era un uomo che divorava letteratura, amava il suo paese e sì, contemplava Dio. Nei suoi ultimi mesi di vita, ha raccontato la moglie Victoria MacGowan non vedeva molte persone, ma c’era un prete che veniva regolarmente a trovarlo e con cui parlava a lungo. Nella sua ultima intervista prima di morire, disse al giornalista che aveva perso la fede un paio di volte, ma mai per molto. Quando il giornalista gli disse che la gente pensava che avesse sempre avuto il desiderio di morire, rimase turbato: “Certo che mi piace la vita”, rispose con passione.



Gli artisti, i pochi veri artisti, assumono su di loro i nostri peccati e i nostri desideri repressi, sacrificando le loro vite immolandosi davanti ai nostri sentimenti repressi da codardi e bigotti. Incarnano quello che noi osiamo solo guardare da dietro una porta socchiusa, scrivono canzoni formidabili, sprofondano nell’abisso più nero in modo che noi ci sentiamo realizzati ascoltando le loro canzoni e possiamo continuare i nostri lavoretti da impiegati o da manager di successo. Ha avuto il coraggio di ammettere: “Anche l’abuso di sé, o come vuoi chiamarlo, è incredibilmente creativo”. Poi sputiamo loro in faccia perché hanno osato morire. In un certo modo, portano la croce dei nostri sentimenti inespressi. Questo è stato il cantante dei Pogues, che ha reso palpabile, quello che dice in una delle sue canzoni più belle, essere “la misura dei nostri sogni”.



Uomo di grande cultura, innamorato di James Joyce (al liceo vinse una borsa di studio presso la prestigiosa scuola pubblica Westminster nel corso di scrittura creativa), i suoi testi sono immersi nell’introspezione e nella filosofia personale, ma il suo personaggio sul palco era più vicino a quello di John Lydon che a quello di Van Morrison. Gli interessi lirici di MacGowan erano spesso incentrati anche sulla diaspora irlandese, poiché MacGowan trascorse la maggior parte della sua giovane vita lontano dall’Irlanda, in Inghilterra. Scritta nello stile di una ballata tradizionale irlandese Thousands Are Sailing piange il viaggio sulle “navi bara” intrapreso dagli emigranti irlandesi che cercavano opportunità all’estero con il rischio di non sopravvivere al viaggio.

Viveva la grande delusione e allo stesso tempo l’appartenenza inscindibile alla Chiesa d’Irlanda, fatta di abusi e violenza ma che allo stesso tempo aveva forgiato l’identità fiera del suo popolo in una sorta di schizofrenia devastante: citando la carestia e altre difficoltà come motivazione dietro l’emigrazione di massa, MacGowan non risparmiò le sue critiche alla Chiesa cattolica: “Dovunque andiamo, celebriamo / La terra che ci rende rifugiati / Per paura dei preti con il piatto vuoto / Dalla colpa e dalle effigi piangenti / Ancora balliamo al ritmo della musica”. In questi testi, MacGowan lottava con la complicata eredità del rapporto della Chiesa cattolica con la carestia irlandese. Il professor Breandán Mac Suibhne dell’Università Nazionale d’Irlanda sostiene che “la Chiesa cattolica fu un ‘vincitore netto’ della Grande Carestia, poiché i cattolici urbani che sopravvissero avevano maggiori probabilità di essere frequentatori regolari della messa rispetto ai poveri, in gran parte rurali, che morirono consentendo alla chiesa di aumentare la sua influenza sulla popolazione in generale, e di ubbidire alla Corona inglese”. I testi di MacGowan mostrano parte di questa resa dei conti con l’istituzione a cui apparteneva. Ma, come era suo stile, la sua risposta a queste domande fu: ballare al ritmo della musica.

Shane MacGowan ha fatto anche di più. Ha capito che la sostanza del suo popolo, umiliato, condannato a morte, calpestato, si reggeva nella capacità di bilanciare il bene e il male trasformandolo in canzoni gioiose. Il senso di unità e comunità che gli irlandesi vivevano nei pub non ha uguali nella storia dei popoli europei: prima andavano alla messa domenicale, poi al pub a bere e a cantare canti di popolo. In un momento storico dove il punk da una parte esigeva distruzione e cinismo e Mtv proponeva modelli glam illusori di successo effimero, lui ha ripreso in mano le canzoni del suo popolo. MacGowan ha cercato di portare il potere della musica folk irlandese sulla scena rock, con i suoi scritti ispirati alla letteratura, alla mitologia gaelica e alla Bibbia. “Divenne ovvio che tutto ciò che si poteva fare con un formato rock standard era stato fatto, di solito piuttosto male”, disse a NME nel 1983 mentre i Pogues stavano decollando. “Volevamo solo spingere la musica che aveva radici, che è generalmente più forte e ha più rabbia ed emozioni reali, in gola a un pubblico pop”.

MacGowan riteneva che la qualità “senza tempo” della loro musica fosse alla radice del fascino irlandese. “Non devi far parte della sottocultura giovanile per identificarti con essa: non contiene angoscia adolescenziale o qualcosa di così dannatamente stupido”, disse ancora a NME nel 1983. “È basato su melodie forti, che per me è quello che è una canzone”.

Quella che è considerata la più bella canzone moderna di Natale, Fairytale of New York, è stata bandita dalla radio inglese e messa sotto accusa per il linguaggio dalla cultura politicamente corretta: “La protagonista è solo  un personaggio autentico e non tutti i personaggi nelle canzoni e nelle storie sono angeli o addirittura decenti e rispettabili”.

Il Presidente irlandese Michael Higgins è stato tra coloro che hanno reso omaggio dopo la sua morte, scrivendo: “Le sue parole hanno collegato gli irlandesi di tutto il mondo alla loro cultura e storia… La genialità del contributo di Shane include il fatto che le sue canzoni catturano dentro di loro, come direbbe Shane, la misura dei nostri sogni – di tanti mondi, e in particolare quelli dell’amore, dell’esperienza dell’emigrante e dell’affrontare le sfide di quell’esperienza con autenticità e coraggio, e del vivere e vedere i lati della vita da cui tanti si allontanano”.

Non è un caso che Shane, forse, fosse nato il giorno di Natale del 1957, una data che è più che simbolica per un buon cristiano peccatore irlandese. MacGowan ha combattuto i demoni personali per gran parte della sua vita, ma lo ha fatto in modo così gioioso che i fan e gli spettatori non si sono resi conto della portata delle sue lotte.

Alla fine restano le sue parole a testimonianza di una vita che ha avuto la presunzione di fare quello che noi non sappiamo fare, celebrare la vita stessa: “Se dovessi cadere in disgrazia davanti a Dio / Dove nessun medico può aiutarmi / Se fossi sepolto sotto la zolla / Ma gli angeli non mi riceverebbero / Lasciatemi andare, ragazzi”.

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