Fritz Lang diceva che il CinemaScope era perfetto per riprendere i serpenti e i funerali. Deve essersene ricordata Emma Seligman per il suo debutto nel lungometraggio Shiva Baby (disponibile su Mubi), scegliendo di raccontare la sua storia – ambientata durante un funerale – lavorando in modo molto fine proprio sul formato cinematografico.



La protagonista (Rachel Sennott) è una ragazza che nasconde a tutti pezzi della sua vita: studentessa incerta, aspirante imprenditrice, amante di un uomo più adulto ma bisessuale. Questi pezzi rischiano di venire tutti a galla durante uno shiva (il ricevimento funebre della cultura ebraica) in cui le pressioni della famiglia, le malignità della sua ex-compagna e la presenza imprevista del suo amante con moglie e figlia porteranno la ragazza al punto di ebollizione.



Seligman parte da un suo cortometraggio del 2018 e, anche sceneggiatrice, lo amplia con il fondamentale supporto di Sennott, attrice e stand-up comedian per raccontare la storia di una ragazza che cerca una sua direzione in una realtà in cui tutti sembrano volerle dire andare e cosa fare.

Per mettere in scena questa situazione universale per i ragazzi a cavallo dei 20 anni, Seligman lavora sulla forma cinematografica prima che sulla sceneggiatura e la drammaturgia, o meglio usa la prima per strutturare le seconde: con la direttrice della fotografia Maria Rusche, ha scelto il formato panoramico e le lenti anamorfiche, che di solito vengono usati per riprendere paesaggi ampi e campi lunghi o lunghissimi, per stringere le pareti della casa e gli ospiti attorno alla sua protagonista, per affollare l’immagine di persone e oggetti togliendo spazio al personaggio principale.



In questo modo può raccontare in maniera efficacissima la storia di una ragazza che deve cercare di farsi spazio in un contesto che vuole schiacciarla o escluderla, involontariamente forse, ma inesorabilmente, in cui le aspettative altrui hanno tolto il controllo della propria vita. Anziché farne un racconto consolatorio di emancipazione e potenziamento, che in fin dei conti non fa altro che validare l’ideologia vigente del successo, Seligman ragiona in profondità sugli elementi sociali e familiari connessi al discorso, mostra una ragazza che vorrebbe fare scelte alternative e anti-conformiste, ma che deve innanzitutto conquistare il proprio diritto alla parola.

Shiva Baby è infatti uno dei rari casi di commedia indipendente (per di più di matrice ebraica) tutta basata sui dialoghi in cui tutti sembrano fare a gare per zittire la protagonista, per toglierle voce: Sennott, che usa il suo corpo come ultimo baluardo identitario, vaga sempre più allucinata in una casa sempre meno ospitale mentre ascolta gli altri parlare di lei, cercando senza riuscirci di dire la propria versione, ma intelligentemente, le cose più importanti da comunicare sono lasciate al non detto, come il bel finale in macchina, con una stretta da mano più comunicativa di un fiume di parole vacue.

Seligman dimostra di avere la stoffa di una vera regista lavorando produttivamente sullo stile, sull’uso degli elementi fondamentali della sintassi cinematografica (tra cui il montaggio maniacale di Hanna Park e le musiche ansiogene di Ariel Marx) per creare un discorso, per comunicare idee attraverso le immagini e riesce anche a superare i limiti dell’approccio scelto: così quello che sembra un classico esempio di umorismo yiddish basato sull’imbarazzo, stile Curb Your Enthusiasm per intenderci, sfocia in un gioco al massacro, nell’invasione e distorsione dello spazio vitale, come Madre! di Aronofsky.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI