Palestina, anno 1897. Fino a quel momento il territorio ancora oggi conteso tra arabi ed ebrei era un tranquillo agglomerato di popoli e case, parte dello sconfinato Impero Ottomano. In quell’anno, in Svizzera, la prima conferenza dell’organizzazione sionista mondiale decise che la Palestina si sarebbe dovuta popolare di ebrei, che si sarebbero aggiunti alla piccola comunità già presente sul territorio. In poco più di trent’anni gli ebrei divennero oltre 500.000, destinati a mescolarsi (non senza difficoltà) alla popolazione locale. La “Terra promessa” rimase, dal 1920 al 1948, sotto il dominio britannico che cercò, senza successo, di portare ordine nel disordine crescente.



È questa la breve storia triste di un luogo sacro e maledetto, patria reclamata da popoli e culture apparentemente inconciliabili, landa di violenze e di inutili quanto infiniti massacri. Una storia (politica, economica e sociale) drammatica, inconcepibile, deleteria, che sembra davvero non trovare un lieto fine. Una storia di paci fallite e odio fomentato, a suon di bombe.



A iniziare, ci racconta il film Shoshana, sono stati proprio gli inglesi che, per fare ordine, hanno sperimentato la forza della violenza e dell’intimidazione. Come reazione, in poco tempo, sono apparse le prime bombe. E poi ancora bombe, arresti, spari, uccisioni, attentati. Azioni che hanno finito per definire, o quasi, uno stile di vita, fondato sull’attacco come difesa.

Shoshana è un personaggio reale, voce narrante del film che ci accompagna tra le cause del conflitto. Una donna coraggiosa e indipendente, ispirata al socialismo idealista dei Kibbutz e al sogno di un Paese animato da pacifica coesistenza. Una sognatrice, concreta e combattiva, innamorata per sbaglio di un poliziotto britannico, eminente membro della tribù nemica. Un amore impossibile che fa da sfondo appannato allo scenario di guerra tra strade, commissariati di Polizia e ritrovi segreti in appartamenti – a onore di cronaca – della Puglia, tra Taranto, Lecce e Brindisi, dove il film è stato girato.



Un buon film, quello firmato dal prolifico regista britannico Michael Winterbottom, che nella sua carriera non ha raccolto un gran numero di riconoscimenti (Orso d’Oro con Cose di questo mondo e d’argento con The road to Guantanamo, più tre candidature a Cannes). Un thriller appassionante che ci insegna un po’ di storia, ci porta nel cuore dell’Irgun (organizzazione terroristica ebrea) e dei suoi martiri, e che ci mostra tutte le difficoltà e le contraddizioni di uno scontro di potere e di civiltà, quella britannica e quella ebrea e, più sullo sfondo, quella araba.

Winterbottom non prende posizione, e fa bene in un momento storico così politicizzato. Si volta indietro, cercando risposte nella vacuità della violenza che posticipa semplicemente la soluzione dei conflitti. Non ci sono bravi, né cattivi nel suo film. Solo vittime dell’universale battaglia tra i popoli, divisi tra integralismo e moderazione, tra conquista e convivenza, tra guerra e pace.

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