Uno dei grandi problemi della società occidentali è il calo delle nascite: in particolare in Italia, agli ultimi posti nel mondo insieme alla Corea del Sud, con un tasso di natalità di 7 nati per mille abitanti; la Svizzera è a quota 10, il Niger guida la classifica a quota 44.

Siamo di fronte a un fenomeno mondiale. Solo l’Africa continua ad avere tassi di crescita elevata della popolazione, ma anche qui in sostanziale rallentamento. Il mondo ha superato quota 9 miliardi, supereremo i 10 miliardi, secondo le proiezioni dell’Onu, attorno al 2050, ma poi inizierà una lenta discesa perché la tendenza alla riduzione della fertilità arriverà anche in Africa che comunque passerà da poco più di un miliardo a quattro miliardi di abitanti.



L’anno scorso sono nati in Cina poco meno di 10 milioni di bambini: meno di un terzo dei trenta milioni nati nel 1963. Nel mondo le nascite avevano raggiunto il massimo nel 2014, con 144 milioni, ma da allora sono andate diminuendo e nel 2022 i nati sono state “solamente” 134 milioni.

In Italia siamo in pieno inverno demografico, qualcuno lo chiama anche inferno demografico. Le nascite sono scese sotto quota 400mila con un numero di morti che è quasi il doppio. E la tendenza non è certo positiva. in Italia risiedono ora otto milioni di donne di 20-44 anni. Se non ci saranno migrazioni, fra dieci anni saranno 800 mila in meno: quindi, anche se la propensione ad avere figli restasse quella di oggi, i nati sarebbero 40 mila in meno, solo a causa della diminuzione del numero delle potenziali madri.



Il calo demografico è un dato di fatto che anche coraggiose politiche per la natalità, altrettanto necessarie quanto solo in parte realizzate, potranno solo leggermente rallentare. Lo spiega Alberto Brambilla, uno dei maggiori esperti italiani nel campo della previdenza, nel suo ultimo libro “Italia 2045, una transizione demografica e razionale” (Ed. Guerini e associati, pagg. 186, € 18), un libro che cerca di superare la visione unicamente pessimistica del calo demografico.

Ci sarebbe molto da discutere sulle irrealistiche prospettive di “decrescita felice” che accompagnano la visione di Brambilla dei prossimi decenni, ma appaiono invece particolarmente interessanti i richiami sulla necessità di avere una visione nuova dell’anzianità proprio per superare i riflessi sociali ed economici del progressivo aumento del numero di anziani a cui si contrappone il continuo calo delle classi giovani.



“La vera sfida – afferma Brambilla – è invecchiare attivamente, lavorando anche dopo i 67 anni e facendo molta prevenzione per vivere in buona salute l’ultima parte della nostra vita”. Ed è possibile mantenere sostenibile il sistema pensionistico “grazie al calcolo contributivo e all’adeguamento dell’età del pensionamento all’aspettativa di vita”. Senza dimenticare la necessità di allargare la partecipazione al lavoro: ora la percentuale degli occupati over 55 è del 53%, la più bassa d’Europa. Certo, non si può pretendere i minatori o gli addetti agli altiforni lavorino fino a 67 anni ed oltre. Ma per i lavori “di concetto” non si vede perché non si possa continuare a dare un contributo positivo anche oltre i 70 anni. Più che di anzianità bisognerebbe parlare di longevità. Anche perché il lavoro di oggi, grazie all’informatica e all’automazione, non è più in gran parte quello di una volta.

“Gli ultrasessantacinquenni – afferma Brambilla – sono oggi circa un quarto della popolazione e sono il ‘petrolio’ della nazione perché un loro reimpiego sociale potrebbe produrre tanto lavoro che andrebbe più che a compensare la denatalità. Purtroppo non esiste alcuna iniziativa pubblica e si perde la grande ricchezza della silver economy“.

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