Silvia Romano dopo settimane di prime pagine sui quotidiani di tutta Italia è finalmente in “pace” quantomeno dal cancan mediatico: ma con questa ultima intervista rilasciata a Davide Piccardo – direttore del giornalino online “La Luce” e storico portavoce del coordinamento delle moschee di Milano e Brianza – di certo qualche strascico ci sarà. «Ero disperata perché, nonostante alcune distrazioni come studiare l’arabo, vivevo nella paura dell’incertezza del mio destino. Ma più il tempo passava e più sentivo nel cuore che solo Lui poteva aiutarmi e mi stava mostrando come…», parla la ragazza cooperante rapita in Kenya nel novembre 2018 e liberata nel pieno dell’emergenza Covid-19 dopo una lunga e oscura trattativa tra lo Stato italiano, i servizi segreti turchi e i terroristi di Al Shabaab.
La liberazione con tanto di velo mostrato in diretta nazionale ha creato un dibattito molto acceso, spesso sfociato nelle reciproche accuse tra “fazioni” pro-anti Islam: «per me il concetto di libertà è soggettivo e per questo è relativo. Per molti la libertà per la donna è sinonimo di mostrare le forme che ha; nemmeno di vestirsi come vuole, ma come qualcuno desidera». Per Silvia l’uso del velo dunque non è in contraddizione con il concetto di libertà della donna, ma l’esatto opposto: «Io pensavo di essere libera prima, ma subivo un’imposizione da parte della società e questo si è rivelato nel momento in cui sono apparsa vestita diversamente e sono stata fatta oggetto di attacchi ed offese molto pesanti. C’è qualcosa di molto sbagliato se l’unico ambito di libertà della donna sta nello scoprire il proprio corpo».
SILVIA ROMANO E LA CONVERSIONE: “IL CARCERE È STATO UN MIRACOLO”
Per Silvia Romano il velo «è un simbolo di libertà, perché sento dentro che Dio mi chiede di indossare il velo per elevare la mia dignità e il mio onore, perché coprendo il mio corpo so che una persona potrà vedere la mia anima. Per me la libertà è non venire mercificata, non venire considerata un oggetto sessuale». Prima di partire per l’Africa «ero completamente indifferente a Dio», spiega ancora Silvia “Aisha” Romano nell’intervista a “La Luce”, «anzi potevo definirmi una persona non credente; spesso, quando leggevo o ascoltavo le notizie sulle innumerevoli tragedie che colpiscono il mondo, dicevo a mia madre: vedi, se Dio esistesse non potrebbe esistere tutto questo male … quindi Dio non esiste, altrimenti eviterebbe tutto questo dolore». Mentre si trovava imprigionata dai terroristi islamisti, “Aisha” trova la fede e la spiega così: «Dopo aver letto il Corano non ci trovai contraddizioni e fin da subito sentii che era un libro che guidava al bene. Il Corano non è la parola di Al Shabaab. Ad un certo punto sentii che era un miracolo, per questo la mia ricerca spirituale continuava e acquisivo sempre più consapevolezza dell’esistenza di Dio».
Una conversione partita da momento del rapimento ma che ha portato, per Silvia Romano, a scoprire la profondità della fede islamica: «Nel momento in cui fui rapita, iniziando la camminata, iniziai a pensare: io sono venuta a fare volontariato, stavo facendo del bene, perché è successo questo a me? Qual è la mia colpa? È un caso che sia stata presa io e non un’altra ragazza? È un caso o qualcuno lo ha deciso? Queste prime domande credo mi abbiano già avvicinato a Dio, inconsciamente. Ho iniziato da lì un percorso di ricerca interiore fatto di domande esistenziali».