Non so se Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi sia stato mai messo in scena al Festival di Salisburgo. Penso che la produzione presentata quest’anno sia la prima proposta dalla manifestazione austriaca anche perché i successi dell’opera sono relativamente recenti. Simon Boccanegra è stata, per decenni e decenni, una delle più “maledette” tra le “opere maledette” di Verdi. Fu un tonfo alla “prima” a La Fenice nel 1857; rimaneggiata nel libretto e nella musica, ebbe esiti modesti nelle riprese a Reggio Emilia, Milano, Napoli e Firenze nel 1858-59. Ripensata, con l’aiuto di Arrigo Boito che rimise mano a parti essenziali del libretto, fu un successo di breve durata quando la versione adesso corrente raggiunse La Scala nel 1881. Nell’ultimo scorcio dell’Ottocento e nella prima metà del Novecento, venne dimenticata.



Gino Marinuzzi, consapevole che si trattasse di un capolavoro unico nel teatro verdiano ed europeo più in generale, tentò di rilanciarla, a Roma, nel 1934. Da allora, Boccanegra ha ripreso un lento cammino, giungendo alla consacrazione internazionale vera e propria all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso grazie a due edizioni eccellenti, ma molto differenti: quella di Gianandrea Gavazzeni, tragica, cupa, quasi infernale (ascoltabile in un mirabile cd della Rca), e quella di Claudio Abbado, invece, dolce, densa di colori chiari e di volumi leggeri (impareggiabili le evocazioni marine) che in un allestimento di Strehler e Frigerio ha viaggiato il mondo (anche Londra, Parigi, Mosca, Washington e Vienna) ed è disponibile in cd e in DVD.



La “maledizione” di Boccanegra è da imputarsi a un libretto intricatissimo e a una partitura bifronte, rivolta in parte verso il passato ma pure lanciata verso l’avvenire (si pensi all’impiego dei fagotti e del clarinetto basso, inconcepibile senza l’esperienza wagneriana). Sfoltito da tutti i ciarpami del melodramma ottocentesco, Boccanegra è un sofferto apologo sulla politica “bassa” e sulle relazione umane, principalmente la famiglia. La vicenda ha poco a vedere con la storia del Simon Boccanegra “storico” che fu, in effetti, il primo Doge di Genova poiché romanzata a tinte forti, come era costume della letteratura popolare dell’epoca.



Il “corsaro” Simone, uomo del mare (da dove scaccia i saraceni che mirano a pirateggiare nelle coste tirreniche), è costretto a entrare in politica nella speranza di potere sposare la donna amata, di stirpe patrizia. Diventa, quindi, Doge, ma la sua donna muore e la loro figlia viene rapita. Per un quarto di secolo esercita il potere diventando sempre più solo, e sempre più lontano dal suo mare. Ha una visione politica “alta”, ma è preso nella trappole di una politica “bassa”, fatta di nepotismi, di favori, di intrighi, di colpi bassi. Quando ritrova la figlia e quando scopre affetto paterno per il giovane di cui lei è innamorata, è troppo tardi: il gioco del potere lo annienta, mentre sta per riavvicinarsi al suo mare. A questo dramma “privato”, se ne affianca uno “pubblico”: la lungimiranza politica di Boccanegra, l’appello alla fine delle guerre tra Genova e Venezia e il sogno di un’Italia unita, non è compreso né dai patrizi, né dai plebei e anzi innesca l’intrigo di tradimenti che porta alla catarsi finale, illuminata dalla speranza che suo genero potrà continuare sul suo cammino.

Nella produzione di Salisburgo, che probabilmente si vedrà in altre città oltre che nei canali televisivi che danno priorità alla musica classica, la regia di Andreas Kriegenburg e la drammaturgia di Julia Weinrich sfrondano il dramma da tutti i riferimenti alla Genova dei Dogi proprio al fine di accentuare i due temi di fondo della poetica di Verdi, non solo in Simon Boccanegra ma anche in numerose altre opere: il disprezzo quasi per la “politica bassa” fatta di intrighi e di giochi di potere e la grande attenzione per i rapporti umani. La vicenda si svolge al giorno d’oggi in una struttura moderna bianca, dalla cui grandi finestre si vede il mare, e che, girandosi, diventa la sala del gran consiglio del secondo quadro del primo atto. La scena è di Harald B. Thor e i video sono di Peter Venus. I costumi di Tanja Hofmann sono in nero o grigio scuro da cui si staglia quello in blu sgargiante di Amelia. Un impianto scenico e registico per dare un messaggio universale.

Valery Gergiev dirige i Wiener Philarmoniker. Una lettura appassionante in cui scorcia leggermente i tempi nei passaggi di più intensa azione e li dilata in quelli più meditativi. Gergiev accentua i violoncelli, i contrabassi e i fagotti nei momenti più cupi mentre sottolinea gli abbandoni dei violini nel ricordare la dolcezza delle auree marine. Cast vocale di gran lusso. In un dramma quasi interamente tra uomini, spicca Marina Rebeka come dolcissimo personaggio femminile sin dalla sua aria iniziale Come in quest’aura bruna.

Il suo Gabriele Adorno è un magnifico Charles Castronovo che si è meritato un applauso a scena aperta al termine di Cielo pietoso rendila. I deuteragonisti sono Luca Salsi (grandioso nel Fratricidi! Plebe, Patrizi, Popolo) e René Pape (il cui Il Lacerato Spirito è stato davvero commovente. Paolo Albiani è un efficace André Heyboer.

Applausi e ovazioni per un Simon Boccanegra difficilmente dimenticabile.