Il 1970 è un anno particolarmente importante per il mondo della musica in cui ancora una volta è l’Inghilterra a ritagliarsi un ruolo primario. Mentre i Beatles pubblicano il loro ultimo album dopo lo scioglimento e i Pink Floyd sono al lavoro per Atom Heart Mother che segna una discontinuità rispetto ai lavori passati, si diffonde e si afferma l’hard rock: i Led Zeppelin pubblicano il loro terzo capitolo, la Mark II di Blackmore e Gillan incide Deep Purple in Rock mentre Ozzy & Co. pubblicano la doppietta Black Sabbath e Paranoid.



Un anno magico in cui chiunque sul suolo britannico avesse avuto una chitarra e del talento avrebbe avuto un successo assicurato. Tutti o quasi tutti. A cercare di farsi largo c’è anche un certo Simon Finn, cantautore dalle belle speranze che, poco più che quindicenne, si trasferisce dal Surray a Londra per trovar fortuna. Le cose sembrano mettersi per il meglio e nonostante un’esibizione promettente al mitico Marquee Club di Soho, le speranze di una vita di sola musica vengono disattese. Proprio nei giorni scorsi ha compiuto 50 anni l’album di esordio Pass the Distance, un ottimo disco acid folk ma forse troppo introspettivo e sincero per sfondare nello show biz. L’ascolto del disco rimanda in parte alla chitarra acustica malinconica e struggente del povero Nick Drake e in parte alla psichedelia dei Kaleidoscope. Il lieto fine comunque non arriva e il sogno di successo sfuma presto: le vendite non decollano e a stroncare ogni forma di aspirazione si mette di mezzo un’azienda produttrice di scarpe che cita in giudizio la Mushroom, l’etichetta di Simon Finn, perché la copertina del disco risulta troppo simile ai manifesti delle sue pubblicità.



Le copie invendute vengono sequestrate e l’album diventa solo un pezzo pregiato da collezionare. Simon Finn dopo uno show all’Hammersmith (o allo Shephard’s Bush anche lo stesso musicista ne ha perso memoria) abbandona il sogno musicale per trasferirsi in Canada, dove per anni vive occupandosi di agricoltura biologica, insegnando l’arte del karate e andando a letto presto.

La vita è bizzarra e offre a Simon una seconda possibilità. A distanza di oltre 30 anni entra in contatto con David Tibet dei Current 93 che gli offre l’occasione di tornare in studio di registrazione. Nel 2004 ristampa Pass the distance e negli anni successivi pubblica quattro album che gli consentono di far riscoprire la sua musica. Nemmeno in questo caso arriva il lieto fine sperato ma quanto meno questa nuova visibilità gli consente di “sopravvivere” offrendogli la possibilità di portare in giro per il mondo la sua arte.



Buona parte del merito di aver fatto conoscere la storia Simon Finn anche in Italia è del bel libro Ambulance Songs, in cui gli autori Luca Buonaguidi e Salvatore Setola, si sono divertiti ad elencare le canzoni per loro più significative che hanno contribuito in qualche maniera a salvare le loro vite. Simon Finn è stato un messaggero di salvezza per gli autori e forse non solo per loro. Un intero capitolo del libro è dedicato a Jerusalem che, inclusa in Pass the Distance, è certamente la canzone più nota di Simon Finn.

Il brano racconta l’ingresso di Gesù nella città santa di Gerusalemme, un passo necessario per realizzare il volere del Padre per quanto consapevole di dover andare incontro alla passione per salvare il mondo. Nella canzone Gesù è descritto come: “Un re che non portava la corona, solo capelli lunghi”, “un pescatore” che invitava i discepoli a dare alla vita “una condotta diversa”, “un bravo ragazzo che viveva di fichi e vino” e “un rivoluzionario politico”. Il brano inizia lento con una bella strimpellata di chitarra a cui si aggiunge un organo che accompagna la melodia in un crescendo di emozioni e di suoni. Già dopo poco più di un minuto il tono pacato e confortante degli inizi diventa meno rassicurante e anticipa nell’ascoltatore una forma di inquietudine. I toni poi si scaldano ulteriormente e la canzone si infiamma fino a delirare. Un crescendo fino alle strofe finali “Lo metteranno dentro e sto urlando tutto ciò che posso” in cui emerge tutta l’incredulità e la disperazione di Simon. Come dire, ma vi rendete conto? Cosa state facendo? Ma non vedete che è Dio che si è fatto uomo?  “Ma non vedi che è il Cristo? Oh no no e loro non capiscono una sola parola che dico, ma sto piangendo lo stesso”. A questo punto la melodia esce da tutti gli schemi e la voce urlata, disordinata e distorta di Simon Finn fa di Jerusalem uno dei brani più folli e deliranti della storia della musica. L’ingresso festoso e trionfale a Gerusalemme diventa il preludio alla morte in croce. Una canzone di morte si direbbe, eppure per qualcuno Simon Finn si è rivelato un messaggero di salvezza.