La morte di Simonetta Cesaroni è un mistero che attraversa i decenni con un carico di interrogativi e ombre che non si è mai alleggerito con il tempo. Un omicidio ancora irrisolto e senza un colpevole, quello della segretaria 20enne trovata senza vita negli uffici di via Poma, a Roma, il 7 agosto 1990 colpita con 29 coltellate, che adesso potrebbe registrare un punto di svolta nel tortuoso percorso verso la verità. Poche ore fa, TgCom24 ha lanciato il contenuto di un racconto finora inedito, frutto del resoconto di un testimone mai ascoltato nel corso degli anni secondo il quale il giallo si sarebbe potuto risolvere già allora senza finire nel limbo dei cold case. A parlare, sostenendo che se fosse stato interrogato 33 anni fa oggi, forse, non si parlerebbe di caso irrisolto, è Giuseppe Macinati, figlio di Mario Macinati, factotum dell’avvocato Francesco Caracciolo di Sarno presidente regionale degli Ostelli della Gioventù all’epoca in cui la vittima lavorava come contabile presso la sede di via Poma. “Il pomeriggio in cui Simonetta Cesaroni fu uccisa, quando ancora non si sapeva dell’omicidio, un uomo telefonò a casa mia dal luogo del delitto“.



Stando alla ricostruzione ufficiale, il corpo della 20enne fu scoperto intorno alle 23:30 dalla sorella Paola, arrivata sul posto insieme al datore di lavoro di Simonetta, Salvatore Volponi, al figlio di quest’ultimo, e al suo fidanzato. L’inchiesta sul delitto vide indagati e prosciolti il portiere dell’edificio, Pietrino Vanacore, il giovane Federico Valle, nipote dell’architetto Cesare Valle che la sera dei fatti si sarebbe trovato in quell’ala dello stabile, e l’ex fidanzato di Simonetta Cesaroni, Raniero Busco, finito a processo e infine assolto. Il testimone parla di “due telefonate” in cui qualcuno cercava Caracciolo proprio a casa sua “perché, quando veniva nella sua casa di campagna, l’avvocato voleva rilassarsi. Per questo non aveva il telefono. Per i casi di urgenze, lasciava il numero di casa nostra. Mio padre lavorava per lui“. A rispondere sarebbe stata la madre di Macinati e lui afferma di non conoscere il contenuto ma di sapere soltanto che “era un uomo“. L’orario delle chiamate sarebbe antecedente a quello, ufficialmente noto, in cui si inquadra la scoperta del delitto: “Ricordo nel pomeriggio, intorno alle 17:30, e poi la seconda non più tardi delle 20:30, perché papà tornava a casa intorno alle 20:45. Sicuro hanno chiamato prima che trovassero il corpo. Noi in quel momento non sapevamo nulla di quello che era accaduto a Roma. Solo il giorno dopo ho scoperto dai telegiornali che era stata uccisa una ragazza agli Ostelli. Ho pensato: ‘Allora era per questo che chiamavano’ (…). Se me lo avessero chiesto prima, nell’imminenza dei fatti, l’assassino non sarebbe libero“. Una testimonianza, quella di Macinati, che sposterebbe le lancette della storia aprendo all’orizzonte di nuove possibili piste e portando persino a riscrivere parte di quelle già esplorate con alibi che, precipitati nell’inchiesta come lacunosi o mai verificati al millimetro, rischierebbero di sgretolarsi.



Simonetta Cesaroni, l’avvocato della famiglia sul giallo di via Poma: “Nuovi elementi d’indagine, ma bisogna fare presto”

Il tempo, soprattutto in casi complessi e insoluti come quello di Simonetta Cesaroni, non gioca a favore della verità e adesso, 33 anni dopo l’omicidio consumatosi nell’estate romana del 1990 a via Poma, c’è la sensazione che qualcosa possa muoversi per chiudere il cerchio intorno a chi l’ha uccisa. “Ma bisogna fare presto“, ha dichiarato a TgCom24 l’avvocato della famiglia, Federica Mondani, che parla di “nuovi elementi d’indagine” trovati nelle carte. L’inchiesta sul delitto è riaperta da oltre un anno e mezzo, ma non è ancora arrivata una svolta. “I tempi sono quelli rituali – ha affermato il legale –. Teniamo conto che le indagini che portarono all’incriminazione dell’ex fidanzato di Simonetta, Raniero Busco, durarono quattro anni. I nuovi accertamenti richiedono tempo. Però, visto che sono ormai trascorsi 33 anni dal delitto, noi speriamo in una accelerazione“.



Nella nuova fase delle indagini, secondo quanto riportato dall’avvocato Mondani, “si è ripartiti dall’inizio” e questo, per i familiari di Simonetta Cesaroni, tiene viva la speranza che si vaglino vecchi e nuovi elementi sotto una luce investigativa capace di evidenziare ciò che, in passato, potrebbe essere sfuggito. “Gli errori investigativi – ha sottolineato Mondani – furono dovuti anche alla superficialità, incapacità e alla mancanza di regole di quel periodo. Stiamo parlando del 1990, all’epoca non esistevano i protocolli operativi e l’attenzione alla scena del crimine che abbiamo oggi. Poi, sicuramente, c’è una parte da attribuirsi non a errori, ma a operazioni di copertura. Qualcuno o più di qualcuno riteneva di dover coprire qualcosa o più di qualcosa“.

Delitto di via Poma, l’esperto che sta rianalizzando i reperti: “Simonetta Cesaroni stringeva in una mano le tracce del suo assassino”

C’è un altro fronte che alimenta la speranza di arrivare alla verità sul delitto di via Poma anche se sono passati oltre 30 anni. Si tratta di quanto descritto dal criminologo Franco Posa, che sta rianalizzando i reperti del caso, sempre ai microfoni di TgCom24. L’esperto sta passando al setaccio dati ed elementi nel tentativo di ricostruire la dinamica dell’omicidio e quale arma sia stata usata per uccidere Simonetta Cesaroni. Posa evidenzia che “c’è stata una quantità di coltellate che va oltre a quelle necessarie per uccidere. C’è una situazione di overkilling. Stiamo mappando le ferite, la mappatura parla molto“. Posa parla anche di nuove evidenze di “segni dei quali non si trova traccia nelle perizie fatte nel corso degli anni” in parti del corpo quali “collo e una mano, dove vi era peluria che non è stata studiata e valutata“. Secondo le dichiarazioni del criminologo, si tratterebbe di materiale pilifero non repertato che risulterebbe evidente negli ingrandimenti delle immagini del cadavere e che potrebbe essere una traccia del suo assassino: “Dagli ingrandimenti fatti con tecniche innovative, le evidenze che sono saltate fuori sono tante. Lesioni mai descritte con precisione, materiale biologico come questa peluria depositata su una mano e un’impronta sul collo che stiamo studiando. Grazie a una tecnica che permette di ingrandire questa lesione, possiamo misurarla e confrontarla con lo strumento che probabilmente è stato usato per stringere“.

Occhi puntati anche su una macchia di sangue di gruppo A positivo che fu isolata sulla maniglia di una porta in via Poma, incompatibile con le persone allora finite sotto la lente delle indagini e appartenente, quindi, a un soggetto mai identificato. La Commissione parlamentare antimafia, in una relazione che sarebbe stata trasmessa alla Procura di Roma nei mesi scorsi, avrebbe sollecitato analisi sulla traccia indicando spunti per arrivare a elementi potenzialmente utili all’accertamento dei fatti. Lo riporta Repubblica, ma sul punto l’avvocato Mondani avrebbe fatto una precisazione ai microfoni del Corriere della Sera: “La famiglia Cesaroni smentisce una volta per tutte che il caso è ripartito da una macchia di sangue, si tratta di una pura e semplice sciocchezza“.