Il caso relativo alla morte di Simonetta Cesaroni si riapre in virtù di una clamorosa intercettazione, il cui contenuto rivela che diverse persone, prima del rinvenimento del cadavere nell’ufficio di via Poma da parte delle forze dell’ordine, erano a conoscenza della morte della segretaria ventenne. La questione, come riportato da Repubblica, è contenuta nella relazione di 32 pagine sul delitto, che è stata firmata e proposta dalla deputata Stefania Ascari in Commissione Antimafia. Per quest’ultima la recente prova “costituisce il definitivo suggello circa l’intervento, nell’appartamento teatro del delitto, di una o più persone, nei momenti o nelle ore successive alla consumazione del crimine”.
A parlare, all’interno di essa, sono la moglie di Mario Macinati, ovvero il tuttofare dell’avvocato Francesco Caracciolo di Sarno, ed il figlio Giuseppe. La donna rivela che nel tardo pomeriggio del 7 agosto 1990, quando Simonetta Cesaroni fu uccisa con 29 coltellate, al cellulare del marito arrivarono tre telefonate provenienti dagli uffici noti come “Ostelli”. L’uomo, in quelle ore, rappresentava il referente del presidente regionale di questi ultimi. L’identità dei mittenti delle chiamate non è stata resa nota, ma probabilmente coincide con Pietro Vanacore, il portiere dello stabile che si tolse la vita pochi giorni prima di essere chiamato a testimoniare.
Simonetta Cesaroni, intercettazione riapre caso: la pista
L’aspetto che emerge dalla nuova intercettazione sul caso di Simonetta Cesaroni, dunque, è che più di una persona sapeva dell’omicidio della segretaria dell’ufficio di via Poma e che probabilmente qualcuno si è recato sul luogo del delitto prima dell’arrivo delle forze dell’ordine. I punti oscuri sulla vicenda, tuttavia, restano ancora tanti. L’obiettivo primario resta quello di trovare il killer. Su quest’ultimo si sa che ha il gruppo sanguigno di tipo A perché, sottolinea la Commissione Antimafia, “sarebbe altrimenti poco spiegabile che a tale gruppo sanguigno debbano essere ricondotte le macchie ematiche rinvenute su interno, esterno e maniglia della porta della stanza dove venne ritrovato il cadavere”.
Inoltre, è evidente che l’assassino conoscesse il luogo dove lavorava la vittima. “Resta ragionevole credere che l’omicida fu persona che aveva un notevole livello di confidenza con lo stabile, se non proprio con l’appartamento. Si deve essere trattato di persona che poteva contare su un rapporto di confidenza con la vittima o che era in grado di approfittare della fiducia di Simonetta Cesaroni o quantomeno, in via subordinata, di non indurla in sospetto o in allarme, trovandosi a tu per tu, in situazione di isolamento”, si legge ancora nella relazione.