La Lidl ha specificato quello che già avevamo capito. Chi ha travolto e ucciso il giovane sindacalista del Cobas che presidiava, cioè bloccava, con altra gente disperata, i cancelli del centro logistico della grande azienda di distribuzione, era “un camionista esterno”.
Cioè uno che era più disperato di chi in gruppo voleva far valere i suoi diritti a un lavoro meno devastato dai ritmi, dall’incertezza, dallo scarso salario. La vittima uccida a Biandrate (Novara) era un leader sindacale di base, Adil Belakhdim, 37 anni, due figli, venuto dal Marocco e cittadino italiano. L’omicida era un ragazzo di 25 anni. Voleva lavorare. Doveva rispettare certi ritmi. Perché quella ventina di esagitati voleva migliorare la propria vita danneggiando la sua? Solo contro tutti. E lui ha premuto l’acceleratore del camion: si sposteranno. Loro però non sapevano che era più disperato di loro. O la va o la spacca. Qualcosa di simile era già successo pochi giorni fa in provincia di Mantova, per fortuna allora nessun morto.
Immaginiamo i due opposti fronti.
Quello del povero Adil. Stare insieme, con le bandiere, i fischietti, mettendosi davanti all’ingresso è una scelta che scalda la volontà di resistere, di spaccare il muro della propria impotenza e debolezza contrattuale. Del resto questo tipo di lotta in Italia ha avuto esibizioni applaudite. Era praticata prima dalle Confederazioni più potenti e storicamente accreditate: nel 1969 e fino al 1980 è stata il metodo di pressione di settori trainanti: metalmeccanici, chimici, operai insomma che erano il simbolo del progresso sociale.
Anche se la legge garantiva il diritto a scioperare, ma anche quello a lavorare, nella realtà chi voleva entrare in fabbrica si ritirava con la coda tra le gambe: i media, gli intellettuali stavano con l’avanguardia e le sue forme prepotenti. Poi Cgil Cisl e Uil dinanzi alla penetrazione del demone terroristico nelle fabbriche (meravigliosi gli articoli di Giampaolo Pansa sulla Fiat e il dominio dell’intimidazione da parte dei filo-brigatisti) si sono fatte paladine di altri armamentari di battaglia, meno invasivi della libertà altrui. E questa saggezza ha favorito l’affermarsi di sigle senza scrupoli riguardo ai mezzi di lotta, specie in settori come i trasporti dove i disagi dei cittadini diventavano oggetto di ricatto.
I Cobas oggi, insieme ad altre micro-organizzazioni estemporanee, trovano adesioni in ambienti dove lo sfruttamento e la precarietà sono di drammatica evidenza: la logistica, la distribuzione, l’impacchettamento, poca specializzazione, inserimento di cooperative che servono ad abbattere costi ma soprattutto a cancellare diritti. Marx avrebbe parlato di Lumpenproletariat, sottoproletariato, con disprezzo. Tra loro ci sono molti immigrati oggetto di schiavismo di fatto.
Invece quel ragazzo, il camionista, si trova lì solo. Neanche i Cobas con lui. Non conosciamo i particolari della vita dell’omicida, i suoi debiti, la scommessa di comprarsi un mezzo proprio, nessuno che sventoli bandiere o batta sui tamburi per lui e la gente coi suoi guai. Uno che agisce scriteriatamente, trasformandosi in quel criminale che non è, è insieme carnefice e vittima. Molto più fratello di Adil, nei bisogni, nell’insoddisfazione, nel desiderio di star meglio, di quanto entrambi credessero mentre stavano uno davanti all’altro.
Chiaro che così non va. Occorre qualcosa come un movimento che abbracci tutti. Qualcosa di pacifico e di vero. Una fraternità tra poveri, non la guerra tra disperati.
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