Sono in molti a ritenere la vicenda del salario minimo come il punto di approdo della cosiddetta crisi della rappresentanza sindacale. Al di là del fatto che le retribuzioni in Italia faticano a crescere da quasi 30 anni, è questo l’epilogo un po’ patologico del caso Fiat che espone il sistema della contrattazione collettiva a un dumping salariale causato da quella proliferazione dei contratti iniziata proprio dopo la sentenza della Corte costituzionale del luglio 2013.
In realtà, il problema del salario minimo si è posto in tutta Europa a seguito della crisi del 2008. E la recente direttiva europea di novembre 2020 fa molta chiarezza sul fatto che il problema vero non è il salario minimo legale, ma, piuttosto, il salario minimo adeguato. La differenza è sostanziale, perché la parola “adeguato” sta a indicare la possibilità, appunto, di aggiornare i salari non per forza attraverso la via legislativa, ma, anche, rafforzando il sistema della contrattazione collettiva.
È ciò che pensiamo avverrà in Italia non appena il salario minimo tornerà al centro dell’agenda politica, probabilmente rendendo la parte retributiva dei contratti più rappresentativi valida erga omnes. E i contratti più rappresentativi restano confinati, ancora, al perimetro del sindacato tradizionale. Restano pur sempre attuali due temi: 1) la capacità del sindacato di rappresentare il lavoro nell’immaginario collettivo, cosa che ha più a che fare con il sindacato confederale; 2) l’abilità del sindacato di rispondere al lavoro che cambia, e non solo al problema salariale.
Per quanto riguarda il primo punto, è piuttosto evidente che il sindacato oggi non è quello di ieri: la deindustrializzazione, rappresentata in modo trionfale dal sindacato storico, ne ha progressivamente ridotto il raggio d’azione; in secondo luogo, le trasformazioni del lavoro – prima col lavoro flessibile, poi con l’avvento dell’industria 4.0 – hanno sempre più concorso al distacco dai “nuovi lavori”, da una parte per ragioni formali (il sindacato rappresenta da sempre il lavoro subordinato), dall’altra per ragioni più di merito (le nuove professioni non si sono sentite attratte dalla rappresentanza sindacale).
Succede però oggi una cosa interessante e in controtendenza: la pandemia sta accelerando i processi di innovazione tecnologica e di organizzazione del lavoro. Da una parte, la trasformazione di industria 4.0 è in corso da anni e chi ne è stato fuori, se in qualche modo non vi rientra in fretta, difficilmente troverà la sua collocazione nella nuova fase alle porte dell’economia globale; dall’altra è quasi banale richiamare al grande impiego del lavoro agile in questo anno di necessario distanziamento sociale.
In entrambi i casi, e nel bisogno di trovare intendimenti tra impresa e lavoro circa cambiamenti organizzativi e lavoro a distanza, la contrattazione collettiva non solo ha già prodotto interessanti accordi apripista, ma si sta rivelando l’unica via per disciplinare il lavoro agile che è, di per sé, il lavoro del futuro, pur nelle diverse forme in cui questo si incarnerà.
Sono in questo senso interessanti gli accordi siglati recentemente da Bayer, meno recentemente da Leonardo, Sanofi, Poste italiane, Wind, Tim, Siemens, come il percorso avviato in Snam e in molte altre aziende da commissioni bilaterali per la miglior regolamentazione dello smart working. Si tenga conto, a proposito delle possibili forme che il lavoro a distanza potrà conoscere anche dell’accordo F.O.R. Working – firmato da Federchimica e Farmindustria e dalla rispettive sigle sindacali del comparto chimico-farmaceutico Filctem, Femca e Uiltec – che ha trovato applicazione in Sasol: si superano qui gli aspetti di conciliazione vita-lavoro in favore di un impianto che, anche giuridicamente, più attiene all’organizzazione del lavoro. Sarebbe poi interessante, in un Paese in cui il 95,2% di imprese ha meno di 10 addetti/e, capire cosa succede dentro questa polveriera dove formalmente non vi sono relazioni sindacali ma vi sono relazioni di lavoro molto vive.
Si consideri anche che recentemente è stato rinnovato il contratto metalmeccanico che ha riformato l’inquadramento professionale, fermo al 1973. È un chiaro passaggio da criteri collettivi di inquadramento a criteri sempre più personalizzati, salto decisivo per chi rappresenta lavoratori e lavoratrici (le aziende sono più orientate a logiche di merito della persona).
È del tutto evidente che questa fase della trasformazione del lavoro che la pandemia sta accelerando troverà disciplina più dal contratto che dalla legge e conoscerà quindi un nuovo protagonismo dei soggetti di rappresentanza la cui crisi di identità probabilmente non è risolta, ma che ci dicono che non possiamo fare a meno della contrattazione collettiva.
Twitter: @sabella_thinkin
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