Confimi Industria (Confederazione dell’industria manifatturiera italiana e dell’impresa privata) e Confsal (Confederazione generale dei sindacati autonomi dei lavoratori) hanno firmato il primo contratto nazionale multi-manifatturiero racchiudendo in un testo unico le basi delle relazioni industriali per numerosi settori: dal tessile alla chimica, dalla plastica alla gomma, dall’alimentare al legno-arredo. Si tratta di un precedente importante. In quest’ottica, anni fa vi è stato un tentativo all’interno della Cisl – il sindacato di via Po voleva creare la grande federazione dell’industria – che tuttavia non ha sortito significativi risultati.
Vedremo che effetti genererà il contratto Confimi-Confsal in termini di applicazione. Resta il fatto che si muove su contenuti di innovazione importanti come il salario minimo a 9€/h, la partecipazione dei lavoratori nel Cda e l’orario di lavoro su 4 giorni a parità di salario.
Come si evince, sono temi su cui stanno investendo anche le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative. Al di là della querelle sul salario minimo – che ha proprio senso risolvere sul piano multisettoriale/interconfederale e non sul piano legislativo -, la stessa Cisl ha portato in Parlamento una proposta di legge di iniziativa popolare sulla partecipazione dei lavoratori. E attorno all’orario di lavoro ridotto a parità di salario si svolgerà la trattativa per il rinnovo del più importante contratto dell’industria metalmeccanica, quello di Federmeccanica-Assistal.
In particolare, per quanto riguarda il salario minimo, è interessante notare che la soluzione qui individuata è di fatto una risposta concreta e puntuale alla Direttiva europea sul salario minimo adeguato e alla discussione che ne è seguita anche nel nostro Paese in cui esiste un serio problema delle retribuzioni e non solo di quelle più basse.
Vale la pena di ricordare che anche i contratti firmati da Cgil, Cisl, Uil e da qualche sindacato autonomo coprono circa il 97% dei rapporti di lavoro subordinato. Un’intesa interconfederale/multisettoriale risolverebbe il problema del salario minimo. Il punto è che gli ultimi grandi accordi sono quelli del 2009 e 2011. Non è seguito più nulla di rilevante un po’ per lo tsunami del caso Fiat, un po’ perché nel 2015 la deflazione rese impossibile fare accordi che governassero i salari validi per tutti. Ricordo una battuta di Carmelo Barbagallo (allora Segretario generale Uil) che disse a Giorgio Squinzi (allora Presidente di Confindustria): “non vogliamo il contratto ma i contratti”.
E così fu: il problema della deflazione – per cui paradossalmente i lavoratori dovevano restituire denaro agli imprenditori – trovò soluzione nel perimetro dei settori merceologici e delle federazioni di categoria. In particolare, i chimici costruirono un modello che pagava ex ante l’inflazione prevista e andava poi a verificarla; i metalmeccanici, scelsero invece di pagarla ex post, una volta nota. Questi furono i due modelli e ogni settore scelse di adottare quello più congeniale alle proprie abitudini.
Oggi avrebbe senso che le grandi confederazioni riprendessero in mano il discorso. L’inflazione continua a essere un problema; il potere d’acquisto ne soffre e su questo c’è da stare molto attenti. Stupisce però che, al momento, non vi sia stata alcuna iniziativa delle Parti sociali. Dopo lo shock petrolifero del ’73, quando l’inflazione era esplosa, si erano susseguiti diversi interventi sulla spirale inflattiva – dal cosiddetto accordo Lama-Agnelli del ’75, all’accordo dell’Eur del ’78, al lodo Scotti dell’83 fino al decreto di San Valentino varato dal governo Craxi nell’84 – che avevano introdotto elementi di stabilizzazione e che avevano successivamente portato all’abolizione della scala mobile (1992) e all’introduzione del tasso di inflazione programmata (1993).
In quegli anni, per governare l’inflazione, sindacalisti e rappresentanti d’impresa non dormivano la notte. E oggi possiamo dire che i risultati ci furono, anche se lo scenario era diverso. E allora l’inflazione era il doppio dei livelli raggiunti ai nostri giorni.
Le divisioni che si sono registrate in questi anni tra le grandi centrali sindacali – Cgil, Cisl e Uil – non facilitano un processo di innovazione di cui il lavoro ha certamente bisogno. Il fattore del potere d’acquisto, inoltre, è decisivo dentro il grande processo della transizione energetica: siamo in una fase storica in cui l’inflazione resterà alta e la trasformazione dell’industria non è “gratis”. Solo salari più alti ci permetteranno di vincere queste sfide.
Twitter: @sabella_thinkin
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