In una recente conversazione con una esponente sindacale di Arezzo, discutendo della bellezza dei luoghi del Casentino, Valdichiana e Valdarno, oltre che del capoluogo, la stessa sosteneva che si stanno investendo molte energie per lo sviluppo della vocazione turistica ma che, in realtà, la forza dell’economia locale è concentrata nella manifattura di valore, per la presenza di significativi e importanti siti industriali delle grandi firme del fashion e dei distretti della pelletteria, calzature e confezioni di fascia alta del Made in Italy.



E la grande preoccupazione è che, alzando lo sguardo, tra qualche anno si potrebbero manifestare seri problemi di ricambio nel mercato del lavoro, per una carenza di manodopera disponibile per gli stabilimenti, sia per ragioni demografiche che per un interesse orientato verso altri settori professionali; da qui la grande preoccupazione degli imprenditori e degli attori sociali, impegnati ad innescare percorsi formativi attrattivi e altre azioni di sistema, compresa la possibilità (necessità?) di innalzare i livelli salariali che, nell’area della moda, non raggiungono le performance di altri comparti (ad esempio, chimica ed energia).



L’esempio ci permette di segnalare uno dei problemi della ripresa post feriale di questi giorni, in cui anche il sistema delle relazioni industriali si trova a fare i conti con i problemi lasciati per qualche giorno sulle scrivanie e nei cassetti (reali e virtuali) dei propri uffici, ormai sempre più coincidenti con smartphone pc. Ma anche durante le vacanze alcune grida di allarme non sono venute meno.

L’acciaio di Taranto, Stellantis e tutta la filiera dell’automotive, una parte importante della chimica, dell’agroalimentare, e di altri settori minori (solo per addetti), come il sistema delle risorse energetiche e dell’acqua, sono tavoli di trattative sempre caldi (surriscaldati in qualche caso), che se non risolti a breve, ci porteranno ad avere intere aree produttive che entreranno in uno shock difficile da superare.



Oltre alle questioni di sistema con cui fare i conti, come i confronti con il Governo sul tema dei conti pubblici e delle risorse disponibili (pensioni, bilancio 2025, PNRR), i sindacati saranno impegnati su questi altri temi correlati alla politica industriale e all’occupazione; ecco perché, dal nostro punto di vista, ci appaiono anacronistici i tentativi di riportare il sistema dei rapporti di lavoro sui temi del Novecento, volgendo lo sguardo ad un passato, esito di parametri ideologici inadeguati a leggere il terzo millennio. Come interpretare, se non in questa direzione, le iniziative referendarie e di raccolta di firme per abrogare alcune regole del cosiddetto Jobs Act e per l’introduzione del salario minimo, oltre che per affidare al Parlamento e alla magistratura le regole sul chi rappresenta chi da parte della Cgil?

I gravissimi temi del lavoro che cambia e che si trasforma ormai da tempo e con una velocità sorprendente, per le tecnologie e per l’introduzione dell’Intelligenza Artificiale, oltre che alla volubilità degli investimenti su scacchieri globali, dovrebbero indurre tutte le organizzazioni di rappresentanza ad uno sguardo più realistico (e meno ideologico) su come affrontare questi fenomeni, alcuni dei quali inediti e che necessitano una posizione di collaborazione e cooperazione ai tavoli negoziali. Infatti, salvo il contratto dei metalmeccanici ancora in stallo (forse anche per un eccesso nelle richieste sindacali e una ritrosia un po’ miope dello schieramento imprenditoriale), tutti i contratti nazionali vengono rinnovati in modo fisiologico e senza conflitti, compresi quelli più critici come quelli dei servizi (commercio, pubblici esercizi e turismo). E i contratti si rinnovano senza scioperi, perché prevale un clima costruttivo e pragmatico. Si potrebbero citare anche molti altri contratti minori, che non fanno notizia sui giornali, ma che tutelano lavoratori e lavoratrici in modo efficace.

Ecco perché ci permettiamo di rinnovare un invito ad abbracciare logiche maggiormente orientate a raggiungere i risultati piuttosto che a ricercare ruoli e visibilità di marketing politico: i sindacati continuino a fare il loro mestiere di rappresentare gli interessi dei lavoratori ed essere misurati su questo, più che sulla partecipazione all’agone di una parte della politica.

Le problematiche di politica industriale richiamate all’inizio, che abbisognano di un maggior impegno da parte delle istituzioni per la tutela del nostro patrimonio di siti e conoscenze, oltre che delle persone che lavorano e con un reddito utile per sé e le proprie famiglie, segnalano l’urgenza di un impegno corale del sistema Paese, con programmi e iniziative che possano abbracciare anche alcuni gravi temi sociali che si ripresentano puntualmente ad ogni ripresa, dai fenomeni del caporalato e dei salari da fame in alcune aree dell’agricoltura alle questioni della sicurezza e degli infortuni sul lavoro, piaghe che devono vedere maggiormente impegnate sia le parti sociali che le istituzioni centrali e periferiche.

Inoltre ci permettiamo di ricordare che giace in Parlamento la proposta di legge sulla partecipazione dei lavoratori nelle imprese, una iniziativa promossa dalla Cisl ma senza bandiere di parte: un dettato costituzionale inattuato da 75 anni, un traguardo che permetterebbe, senza costrizioni e nella libertà delle prerogative imprenditoriali, di modernizzare il sistema delle relazioni di lavoro, disancorandolo da alcuni legami del passato e innescando profili culturali e sociali all’altezza delle sfide che si pongono nel mondo del lavoro del XXI secolo.

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