L’arrivo al Governo del Salvator Patriae (in sostanza dell’analogo, si parva licet componere …, del Salvator Mundi, ma in salsa italica), ha avuto tra gli altri infiniti riflessi pavloviani anche quello di rimettere in pista una parola che definire desueta sarebbe un neologismo. Eh sì, perché si è tornati a parlare di concertazione: ascoltare le parti civili, dare spazio ai corpi intermedi, concertare appunto, come se si fosse tutti un’orchestra e ci si dovesse preparare a una grande Prima, magari una Prima assoluta. Quando ogni strumento cede qualcosa della propria forza in previsione di acquisire tutti insieme una vigoria inattesa, un’espressività che di nota in nota dovrebbe far salire chi ascolta fino all’etereo.
Scendiamo però da lassù e torniamo quaggiù. Precisamente qui in quella porzione di terra che sta tra Lampedusa e la Vetta d’Italia, che galleggia sul mare (ex) Nostrum (e ora turco-russo grazie al combinato disposto di un ventennio di politica estera La Russa-Di Maiana).
Noi? Noi siamo pronti a pensare in termini di “noi” e non di “io” (anzi di “me”; meglio ancora: di “io me”)? Noi saremmo pronti a smentirci e a suonare lo spartito del direttore? Noi saremmo pronti a smettere di litigare e di inventarci soluzioni mirabolanti solo per quanto si rivelano al dunque catastrofiche pur di non deflettere dal Principio Aristotelico Fondativo del nostro vivere (cioè “o Franza o Spagna pur che se magna”) e dal suo corollario primo (“Tengo famiglia”)?
Occorre dire che qualcosa è davvero cambiato: il metodo del Governo Draghi ha smantellato non solo la comunicazione di palazzo Chigi (e su ciò ogni sincero plauso non può che andare di pari passo con il meno benevolo commento che ci voleva poco a far meglio dei comunicati alla Grande Fratello), ma è nato ascoltando tutti, chiamando intorno al tavolo i soggetti che in questi mesi hanno concretamente operato sul territorio e nel mondo socio-economico per far sì che il sistema reggesse e che la pandemia non scatenasse, cent’anni dopo, una nuova Marcia su Roma. In fondo anche allora si era appena usciti da un’epidemia mondiale!
Ascoltare certo non è ancora concertare, ma almeno siamo a un primo passo in avanti rispetto a quanto visto negli ultimi vent’anni: perché a essere sinceri (e non smemorati) la morte della stagione della concertazione fu decretata assai più dal professor Romano Prodi che non dal tycoon Silvio Berlusconi!
Concertare sarebbe arrivare a condividere le scelte politiche perché lo Stato siamo noi, non (sol)tanto noi cittadini ma soprattutto noi cittadini che diamo vita ad associazioni e reti, formali e informali. Noi sindacati e associazioni di imprese; noi che distribuiamo alimenti, vestiti, medicinali; noi che interveniamo quando e dove c’è un bisogno senza far parte di un ente pubblico. Noi che quotidianamente forniamo servizi pubblici e lo facciamo da privati cittadini. Noi cui ci si rivolge perché le strutture pubbliche sono (eufemisticamente parlando) talora un filino carenti e nessuno sa mai cosa fare e dove andare e con chi parlare.
Ecco, allora. Davvero è tornata la concertazione? A voler essere ottimisti no. Non è tornata. Siamo ben lontani da quella stagione politica. Altro è sperare che cambino metodo e spartito. Questo spetta anzitutto, però, al presidente del Consiglio, cui appartiene in ultima analisi di pensarsi come un direttore di orchestra o un dittatore pandemico-dipendente, o un comunicatore compulsivo. Noi possiamo vedere dei segnali, leggere delle intenzioni, intuire delle aperture. Ma non possiamo decidere in merito.
Diverso è se ci poniamo dal punto di vista delle associazioni e dei corpi intermedi, determinati questi secondo il criterio definito dall’Aquinate. Perché è lì secondo noi il punto dolente, il vero nodo su cui rischia di fallire ogni tentativo della goletta Concertazione di prendere il largo verso mari più tranquilli. Siamo davvero pronti a fare sintesi delle nostre posizioni? Forse sì, forse però no. Da mesi, ad esempio, si scontrano le posizioni di Confindustria e dei sindacati: licenziare, anzi no. Abolire il blocco dei licenziamenti, anzi no. Avete ascoltato le prime dichiarazioni? A nostro sommesso avviso si è tirato Draghi da una parte all’altra: neanche fosse un Monti qualunque, venuto dall’Università confindustriale per eccellenza a miracol (?) mostrare.
Potremmo anche dar fiducia a decenni di accordi e di intese, potremmo essere un po’ meno miscredenti ed eretici di quel che in realtà siamo, e potremmo anche dichiararci convinti assertori di una nuova stagione concertativa. Ma vorremmo prima vedere segnali concreti: tipo dichiarazioni congiunte in merito al salvataggio non necessario di industrie cotte e decotte; alla non distribuzione a pioggia dei fondi e benefici a imprenditori dalla navigazione, diciamo, a corto raggio. Invece se non abbiamo mal inteso, si pensa di liquidare i lavoratori di troppo, di farsi dare una quota consistente dei fondi europei e poi di riprendere a canticchiare tra sé e sé “come prima, più di prima”.
Occorre dire che la frase di Draghi con cui l’ex capo della Bce ha chiarito che non si possono salvare tutte le imprese, è stato un messaggio efficace e diretto. Quanto lo si sia ascoltato non si sa. Anche perché esso andava affiancato da un altro avviso: si salvano i lavoratori non i posti di lavoro. Tradotto: sì al percorso formativo, al reinquadramento, alla Formazione continua. No alle imprese (e agli imprenditori) che convivono more uxorio e per decenni con Cig più o meno ordinarie.
Sono state frasi efficaci, che ci hanno colpito, che sembrano venire da Marte per tanto che non se ne sentiva parlare. Ma sono state poi sommerse dal chiacchiericcio dei commentifici in servizio permanente effettivo il cui compito principale non è mai (convinti come sono che Deus non vult!) di dire cose intelligenti e di farci capire, ma quello di affogare nella melma dell’insulso (quando non dell’insulto) ciò che potrebbe aiutarci ad avere pensieri positivi.
La concertazione è una posizione ideale (non ideologica) che discende dalla Dottrina Sociale della Chiesa, che richiede senso di responsabilità e di appartenenza, che dipende dalla capacità dei corpi intermedi e dei cittadini, di farsi carico di un pezzo di dolore comune per percorrere meglio tutti la strada della Giustizia sociale. A oggi ci sembra che si stia facendo strada in molti l’idea che lo Stato padrone assomigli più a un Moloch che a una tappa verso il Paradiso: sarà perché un ventennio di deriva proto-statalista ci ha mostrato tutti i limiti di questo percorso. Sarà perché in Italia lo Stato coincide con una burocrazia dai dubbi contorni e dalle ancor più problematiche capacità organizzative. Sarà per una ragione sarà per l’altra, ma sembra che a qualcuno stia balenando in mente la bizzarra idea che si potrebbe/dovrebbe remare tutti nella medesima direzione. Speriamo.
Quanto meno perché, anche se non ne dovesse uscire il capolavoro assoluto, almeno non ci toccherà più assistere a quella penosa cacofonia di cui siamo stati sbigottiti spettatori incolpevoli negli ultimi anni. Come se poi non ne avessimo avuto abbastanza della pandemia, della crisi economica e dei drammi individuali.