In un’intervista a Raffaele Marmo sul Quotidiano nazionale, Tommaso Nannicini difende l’azione riformatrice del Pd di governo contro le abiure e le critiche del suo nuovo gruppo dirigente. In particolare Nannicini risponde con garbo e competenza alle ultime scorribande di Maurizio Landini, che minaccia di ricorrere ad un referendum abrogativo della precarietà, prendendosela in prima battuta con il jobs act, un provvedimento che ha visto protagonista il senatore durante il governo Renzi di cui era stretto collaboratore.



È appena il caso di ricordare che il jobs act è un monumento legislativo che comprende una legge delega e ben otto decreti legislativi che affrontano le materie più importanti in materia di lavoro, di ammortizzatori sociali e di tutela dei diritti. Una norma di delega riguardava anche l’introduzione di una forma di salario minimo che non venne attuata per la contrarietà dei sindacati.



Nannicini, poi, rammenta al leader della Cgil che se il problema è il contratto a tutele crescenti (in tema di licenziamento) sarebbe corretto chiamarlo per nome senza scomodare tutto il jobs act. Inoltre sarebbe il caso di valutare a che cosa si è ridotta quella misura dopo le sentenze della Consulta che ne hanno ridimensionato la portata innovativa. Landini sembra un utente di un metaverso scaduto, nel senso che ha davanti a sé una rappresentazione che non tiene conto delle novità. Per il sindacalista non esistono i dati dell’Istat sull’occupazione, il mismatch tra domanda e offerta di lavoro, la ripresa delle assunzioni a tempo indeterminato e la flessione del lavoro a termine.



Per lui gli imprenditori sono soggetti passivi che potrebbero essere obbligati a tenere aperte le loro attività, comunque, a prescindere dalla gestione della risorsa lavoro. Se il Parlamento varasse tutte le norme che richiede la Cgil, avremmo i lavoratori inondati di diritti ma in aziende chiuse o espatriate alla ricerca di condizioni sostenibili. Certo, in Italia si è consumato, nella passata legislatura, il progetto di impedire la delocalizzazione, mentre nell’attuale esecutivo il ministro Adolfo Urso ha manifestato scarso interesse per la presenza di multinazionali nel Bel Paese. Ma il capolavoro della confusione Landini la esprime in materia di salario minimo e di legge sulla rappresentanza. Seguiamo la narrazione che ci viene propinata dal leader della Cgil. Occorre introdurre il salario minimo di 9 euro l’ora (ma sulla cifra sembra disposto a trattare) perché 3,5 milioni di lavoratori percepiscono retribuzioni inferiori. Quali sono i motivi di tutto ciò? Landini chiama in causa la proliferazione dei contratti di lavoro definiti “pirata” ovvero negoziati da sindacati gialli in regime di dumping.

Da qui la richiesta di una legge sulla rappresentanza che stabilisca quali sono le organizzazioni legittimate a negoziare contratti estensibili erga omnes. Peccato che questa è una rappresentazione deformata della realtà. È molto importante mettere in ordine i numeri, perché finora la sinistra politica e sindacale “ha dato i numeri”. E l’entrata in scena del Cnel è servita, intanto, per smentire quelle narrazioni secondo le quali la responsabilità del sottosalario era tutta attribuibile al dilagare dei cosiddetti contratti pirata. Un inganno nel vero senso della parola, non perché il fenomeno del dumping non esista, ma perché è ancora molto marginale. È bene ripetere i dati con la stessa ostinazione con cui si diffondono i luoghi comuni.

Secondo l’ultima rilevazione (Report 17°) dell’Archivio dei contratti del Cnel, a luglio sono ben 1037 i contratti depositati, di cui 976 dei settori privati. Ma dei 434 Ccnl applicati a 12.914.115 lavoratori, (sono esclusi i contratti agricoli e dei lavoratori domestici) sono 162 (37,3%) quelli firmati dalle maggiori organizzazioni sindacali confederali o comunque rappresentate nel Cnel e coprono 12.517.049 lavoratori (97%); mentre 272 contratti (62,7%) firmati da organizzazioni sindacali diverse da quelle confederali e non rappresentate al Cnel (ma in una certa misura “rappresentative”) coprono 387.066 lavoratori (3%). Questi  contratti “minori” poi non vanno meccanicamente annoverati come “pirata”. È prassi consolidata che i medesimi testi dei rinnovi contrattuali stipulati dalle federazioni di categoria di Cgil, Cisl e Uil con le rispettive controparti, siano sottoscritti, separatamente, da una pletora di altre organizzazioni sindacali minori, autonome o dall’Ugl, non accettate al tavolo del negoziato insieme ai confederali storici. Va da sé che analoghe procedure si svolgano per tutti i contratti nazionali riconducibili a un settore. I testi sono sempre gli stessi, cambiano solo le rappresentanze firmatarie. Per questi motivi si spiega che il numero dei contratti “figli di un dio minore” sia maggiore di quelli di alto lignaggio. I medesimi contratti, in realtà, sono contati più volte come gli aerei di Mussolini e le vacche di Fanfani.

I “contratti pirata”, invece, sono quelli negoziati da organizzazioni prive di qualsiasi rappresentanza. Secondo stime attendibili, questi ultimi riguardano lo 0,3% del complesso dei lavoratori (in numero di 44mila). Come funziona l’arrembaggio dei pirati alla contrattazione corretta? Solitamente un’organizzazione sindacale spuria convince un gruppo di imprese in un determinato territorio a stipulare un contratto nazionale in dumping. Ma è un fenomeno che può essere contrastato già con le disposizioni vigenti e con la classificazione alfanumerica attuata, per legge, proprio dal Cnel e comunicata all’Inps.

È facile trarre le conclusioni che i dati manifestano. Se i lavoratori a cui si applicano i contratti pirata sono 44mila (comunque è un problema di alcune decine di migliaia di dipendenti), se sono 3,5 milioni i lavoratori sotto pagati, se a 12,5 milioni si applicano (al di là del numero dei depositi) i contratti stipulati da Cgil, Cisl e Uil (la copertura fornita è pari al 97%), tutto ciò vuol dire che alla grande maggioranza dei lavoratori interessati al salario minimo sono applicati i contratti dei sindacati “buoni”. E a questo punto si pone una nuova domanda.

A che cosa serve una legge sulla rappresentanza quando il 97% dei contratti vedono Cgil, Cisl e Uil come firmatarie? Che bisogno c’è di una complicata legge, che non potrebbe eludere l’articolo 39 Cost. da decenni ritenuto inapplicabile, quando il sistema ha già reso evidenti quali sono le organizzazioni più rappresentative? Landini vuole la patente? Per ammazzare le zanzare dei contratti pirata è disposto a segare il ramo su cui è seduto senza che nessuno contesti alla sua organizzazione di essere comparativamente più rappresentativa? Questa definizione è contenuta in tutte le leggi che attengono al diritto del lavoro, agli appalti, alla correttezza degli adempimenti amministrativi. Che senso avrebbe andare a scoprire e a dimostrare ciò che è accettato pacificamente? A Landini piace “vincere facile” o vuole solo far perdere del tempo al Paese?

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