La notizia è che anche quest’anno la manovra di governo dividerà i sindacati. Oddio, notizia è una parola grossa: stando a un vecchio adagio la notizia sarebbe che la manovra non spacca il fronte sindacale.

Ma bisogna accontentarsi: se perfino il nostro Primo ministro si è convertito sulla via di Bruxelles, chi siamo noi per chiedere clamorose novità?



Forse, ecco, forse la notizia è che stavolta la spaccatura è triplice: c’è chi è già in piazza con l’armamentario pronto, chi ha proclamato la chiamata alle armi e chi aspetta di ascoltare per decidere. Inutile chiosare e siglare: i rispettivi soggetti sono ben noti alle cronache e i comportamenti sono freudianamente iterativi. Chi protestò protesterà, chi faceva piazzate piazzerà, e chi discuteva discuterà.



Il problema è che non sembra che nessuna delle tre decisioni sia destinata a incidere sul percorso di un Governo che non ha ancora finito la luna di miele, anzi non è nemmeno sbarcato dalla nave di crociera su cui si è imbarcato alla fine di settembre tra grida e tripudi, e già ha cominciato a flirtare con la vicina di cabina: vedi mai che un’amante possa servire! Con Bruxelles i sorrisi hanno solo sostituito insulti e diffidenze reciproche, ma per ora si tratta di poco più che di bon ton: in fondo è sempre bene tenere un canale aperto con chi ha il borsellino. Ma di prospettive politiche nisba: prolungare il Pnrr? Ma si figuri! Price cap europeo? Beh vediamo. E via rinviando.



La strada è dunque stretta, i soldi sono finiti, i ritardi organizzativi si accumulano: logico che l’ultimo dei problemi del Governo di destra-centro sia di trovare una composizione con i sindacati. I quali peraltro non hanno portato al tavolo chissà quali proposte: al netto di alcune richieste generali, le proposte sono abbastanza meccanicamente ripetitive. E i fondi destinati ad accontentare le istanze di quelle che una volta si chiamavano “parti sociali” sono residuali. Pochi milioni su una manovra da 32 miliardi.

Cgil e Uil si mobiliteranno, anzi minacciano già lo sciopero generale, perché la Meloni non vuole cambiare una manovra che giudicano tout court sbagliata e iniqua, a partire come al solito dal fronte pensioni. Meno reattiva appare la Cisl, che dopo aver espresso un veterodemocristiano giudizio articolato, dice di puntare al dialogo e a migliorare la Legge di bilancio. Vedremo: il confronto è previsto per mercoledì 7 dicembre: confidiamo milanesamente in Sant’Ambrogio e pure, con un giorno d’anticipo, nella Madonna e nei miracoli che solo Lei sa strappare al Motore Primo Immobile.

Il miracolo, infatti, non ha da essere di quelli semplici, ma di un miracolo a testata multipla trattasi, di quelli che lasciano il segno per anni e annorum.

Non solo perché dovrebbe convincere chi è riuscito a scioperare anche contro Draghi a intervenire sulla propria coazione a ripetere, ma perché dovrebbe pure instillare in un organismo geneticamente refrattario a ogni cambiamento quale quello dei sindacati attuali il germe del mutamento e della riforma. Capirai: altro che Lourdes. Qui si deve andare diritti alla fonte dell’onnipotenza.

Il punto non riguarda peraltro semplicemente questa manovra che sostenitori non ne trova nemmeno nella maggioranza che la propone. E forse nemmeno la relativa considerazione con cui il Governo guarda al fronte sindacale. Gli è che questo è un Governo politico, nei fatti centralista e per nulla incline a forme di sussidiarietà verticale e di attenzione (politica, s’intende, perché l’economia è altra cosa), ai corpi intermedi. Ma così fu anche per i precedenti Governi tecnici, politici o incasinati che fossero (Draghi, Conte 1 e 2, e via ricordando) e quindi è arrivato forse il momento di porsi una domanda sulle conseguenze che il comportamento pavloviano dei sindacati rischia di generare. Non tanto in termini di iscritti, relazioni, peso politico specifico quanto in ragione di una semplice equazione: se da decenni gli scioperi generali non fanno più cadere nessuno (esclusi ovviamente coloro che inciampano per età o imperizia scendendo dai pullman che li hanno portati in piazza), dove porta questa decisione? Cosa ci si attende? La piazza ribalterà il Governo?

Mica detto, dato che almeno la metà (lo dice la statistica non noi tapini) di quelli che sono in piazza ha votato per questa maggioranza e quindi pretende oggi cose che ieri ha bocciato. Si vuole convincere la Meloni a reintrodurre la prassi della concertazione? Auguri e un consiglio per coloro che dovessero iscriversi tra gli speranzosi: aggiungete anche questa voce tra i miracoli attesi.

Un particolare ci lascia però dubbiosi: se come sembra le manifestazioni si faranno a livello regionale, potrebbe essere che i sindacati guidati da Maurizio Landini e Pierpaolo Bombardieri stiano pensando di agire politicamente spostando lo scontro laddove questa primavera si voterà, cioè nelle singole regioni. Sarebbe una scelta tattica, non risolverebbe nessuno dei problemi (di contenuto, rapporto e ruolo), in cui si dibattono i corpi sociali ma almeno avrebbe un senso nella tattica (non nella strategia) politica. Oppure si sta valutando l’idea di portare lo scontro sul livello più basso possibile, nei singoli territori, nelle aziende locali e nelle categorie. Insomma, si immagina una sorta di Vietnam. Ci permettiamo anche in questo caso una glossa personale: considerando le percentuali degli ultimi scioperi, generali locali o particolari che siano stati, il rischio non è tanto il loro (atteso e preannunciabile) fallimento, ma la certificazione della marginalità di associazioni cui pure aderiscono alcuni milioni di cittadini che meriterebbero forse una rappresentanza. Ecco il punto ci sembra questo: in questa fase politica, in questo momento in cui i bi-populisti si dividono da almeno cinque anni il potere in Italia (con la parentesi Draghi), chi rappresenta davvero il popolo?

I partiti sono cambiati, i sindacati per ora, teniamoci bassi, ancora no. Le categorie mentali della prima Repubblica non sono solo obsolete, ma rischiano di essere dannose e fallimentari.

Soprattutto, consigliamo non richiesti, attenti a farsi rinchiudere nel recinto di quelli che pensano principalmente alle pensioni: va bene che tra gli iscritti spopolano più i boomer degli anni Sessanta che non gli appartenenti alla generazione Z, ma il futuro sono proprio costoro e ci sembra, vivendoci in mezzo, che per ora lo sguardo con cui essi osservano il sindacato italiano sia drammaticamente simile a quello con cui squadrano sui libri di storia le mosse di Alcibiade a Salamina.

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