In questo particolare periodo dell’anno, avendo avuto modo di visitare tanti territori del nostro Paese e di incontrare molteplici realtà di lavoro, mi sovviene qualche riflessione sulle dinamiche che si intravedono, con particolare riferimento al mercato del lavoro, ai rapporti di lavoro stessi e al ruolo delle parti sociali (sindacati e rappresentanze dei datori di lavoro), in qualità di protagonisti delle regolazioni contrattuali e sociali.



E, assumendo una posizione più distaccata rispetto alla cronaca quotidiana sugli eventi che accadono, si intravede una realtà che spesso è in contrasto con ciò che viene descritto e narrato dal mainstream comunicativo, social media o tiggì regionali che siano. I racconti e le cronache sono spesso unilaterali, in qualche modo parziali, in cui si sovraespongono talune parti e se ne nascondono altre, semplicemente non raccontandole. Ovviamente non sempre è così, come dimostrano ad esempio, le situazioni del lavoro nel settore sanitario, dove, accanto all’endemica carenza di risorse umane ed economiche, sommate a talune incapacità gestionali sia di natura organizzativa e manageriale che di indirizzo politico e amministrativo, si acuiscono le contraddizioni e i disagi di operatori e cittadini con le manovre di finanza pubblica. Si toccano alcuni nervi scoperti del Paese, scandalizzandosi se poi si suscitano reazioni importanti (vedi gli scioperi nel settore delle scorse settimane).



Ma, per stare al tema della conflittualità di lavoro, mi sono domandato dove e perché si sciopera nel nostro Paese e la risposta è pressoché univoca: solo nel settore dei trasporti, e in particolare in alcune aree urbane e metropolitane, con annunci di astensioni vitali a opera di piccoli sindacati ma capaci di paralizzare le arterie di un sistema complesso, oltre che decine di migliaia di pendolari e viaggiatori. Non entro nel merito delle ragioni (o dei torti!), mi limito a segnalare un fatto ovvero che nel Paese sostanzialmente la conflittualità sindacale non è generalizzata, ma localizzata nei casi di licenziamenti e chiusure di stabilimenti o sedi impiegatizie e nel settore dei trasporti. Poi sussistono casi particolari che si trascinano da tempo, quali ad esempio il comparto siderurgico e la crisi di Taranto in particolare.



Ma nelle restanti situazioni il Paese cammina, procede con responsabilità: dal Piemonte a Lecce, da Porto Marghera a Siracusa, da Cosenza a Pordenone, se si misurano i rapporti sindacali ogni giorno gli osservatori della contrattazione (in casa Cisl si chiama Ocsel) registrano decine di accordi sindacali sulla retribuzione, sulle tutele occupazionali, sul welfare integrativo, sugli orari di lavoro, sulle norme sulla salute e sicurezza. Salvo talune situazioni particolari i grandi contratti nazionali si rinnovano a cura dei sindacati di settore. Questo significa che le relazioni sociali e sindacali funzionano, generano patti di politica economica e sociale che aiutano nell’inclusione sociale e tutelano parti importanti del reddito delle persone. A riprova di ciò quasi nessuno si è accorto di recenti scioperi generali proclamati e poco praticati, rischiando di usurpare di uno dei diritti costituzionali più importanti, segno di libertà e di democrazia.

Anche il mercato del lavoro fa intravedere dinamiche molto diversificate, ovvero situazioni in cui convivono sacche di inoccupazione in particolare in alcune aree del Mezzogiorno, accanto a numerosi settori che cercano manodopera qualificata e non la trovano, con segmenti dei servizi in cui sopravvive il lavoro povero e precario. Mi limito solo a questi flash, per indicare che la realtà si compone di tante fotografie (reali e vissute) composite e multiformi.

Potremmo continuare con altri esempi e situazioni, ci fermiamo per non annoiare e rischiare di apparire eccessivamente semplicistici, nel descrivere i quadri, i disegni, i colori, le cornici…

Il punto nevralgico (e di crisi) sta al centro ovvero sta nella necessità di un grande patto sociale nazionale, che invece non si intravede: sul salario minimo, sulle politiche attive per il lavoro, sull’adeguamento dei sistemi educativi e professionali per mondi del lavoro in continua evoluzione, su nuovi paradigmi pensionistici, esito di nuove alleanze generazionali da costruire, sulla necessità di tutele e sostegni adeguati per le fasce più deboli della società (le persone con qualche forma di disabilità, le persone non autosufficienti, i poveri).

Abbiamo invece l’impressione che si stiano alzando nuove barriere ideologiche, in cui vengono puntate le proprie bandierine anziché costruire solidi ponti e passaggi di emergenza; l’avvicinarsi delle scadenze elettorali europee e locali infiammerà un clima di competizione per la conquista di posizioni più favorevoli a scapito di altri.

E le parti sociali rischiano di essere assorbite in questi giochi se non torneranno a esercitare ruoli autorevoli ma soprattutto autonomi dalla politica: Confindustria e le altre organizzazioni delle imprese con i diversi sindacati, in particolare la Cgil, la Cisl e la Uil (se quest’ultima decide di non continuare a essere al traino del più forte, pensando di vivere di luce riflessa), devono rimettersi al tavolo, come successo anche in altre parti del mondo, per esercitare le proprie responsabilità, per costruire atti e patti utili a sostenere le ragioni della loro esistenza.

Il possibile declino verso l’irrilevanza rappresenta un destino inevitabile se non si intraprendono con coraggio le strade della responsabilità, se si evita di collocarsi nell’angolo dei lamenti e della denuncia delle cose che non vanno: le lezioni del passato servono, sia in un verso che nell’altro, perché la storia ha sempre qualcosa da insegnarci. Anche per il 2024, che si presenta con gli stessi problemi della fine del 2023 e non può che essere così.

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