L’emergenza Covid ha riportato in auge le parti sociali. Il loro protagonismo si è rivelato indispensabile per gestire l’impatto di una crisi che non ha precedenti, per valutare i fabbisogni di intervento a sostegno delle imprese e dei lavoratori, per facilitare l’accesso alle prestazioni tramite una rete importante di servizi, per promuovere le iniziative rivolte a tutelare la salute dei lavoratori e per favorire la ripresa delle attività in condizioni di sicurezza.
Hanno dimostrato di essere all’altezza della situazione e di rappresentare nel loro insieme un architrave importante per la resilienza del nostro sistema economico e sociale. Ma la parte difficile deve ancora venire. L’uscita dalla crisi comporterà profonde trasformazioni delle organizzazioni produttive e del mercato del lavoro, e dei modi di intendere la politica e le relazioni industriali. Le criticità pregresse, quelle che hanno oggettivamente contribuito a marginalizzare il ruolo delle parti sociali nelle scelte politiche, non sono affatto scomparse con l’avvento del coronavirus. Rischiano di riproporsi in maniera ancora più virulenta. Con un nuovo ciclo di innovazioni tecnologiche che comporteranno conseguenze inedite sul sistema delle imprese e sul mercato del lavoro, e le stesse caratteristiche della competizione tra sistemi produttivi tra le grandi aree geopolitiche. E dovremo affrontarle in condizioni di partenza svantaggiate per le caratteristiche demografiche della nostra popolazione attiva e per i divari negativi di produttività e di impiego delle risorse umane rispetto agli altri grandi Paesi sviluppati.
Il declino del ruolo delle parti sociali, secondo gli esperti della materia, è originato da due fattori: la competizione produttiva su scala globale, che ha compresso le dinamiche salariali interne ai Paesi sviluppati, e le innovazioni tecnologiche che hanno destabilizzato le organizzazioni produttive e le professioni. Con un aumento progressivo dei divari tra le fasce protette dei lavoratori e quelle precarie, e della contrazione delle figure operaie e impiegatizie che hanno storicamente costituito l’ossatura portante delle organizzazioni sindacali.
Tutto questo però spiega solo in parte le ragioni del declino delle relazioni sindacali in Italia, che rimangono comunque tra le più solide nel panorama internazionale. Una lettura comparata tra le caratteristiche del nostro mercato del lavoro con quelli degli altri Paesi europei e occidentali mette in rilievo che il nostro Paese si mantiene solido nelle dinamiche dei settori e dell’occupazione che sono più esposti alla competizione internazionale, mentre i divari negativi di produttività e di occupazione si registrano nei comparti di attività del tutto dipendenti dalle dinamiche interne della nostra economia. Sulla base dei numeri viene smentita la tesi che i nostri guai dipendano dalla globalizzazione.
Su questi ritardi italiani hanno pesato molti fattori: lo scarso utilizzo delle innovazioni tecnologiche disponibili, l’ampliamento dei segmenti di mercato del lavoro a basso costo alimentati anche da una crescente componente di lavoratori immigrati, il mancato adeguamento della spesa sociale. Quest’ultima largamente dominata da quella previdenziale e assistenziale, a discapito delle risorse da dedicare alle famiglie, ai servizi di cura delle persone, alla formazione e alle politiche attive del lavoro. Frutto anche dei ritardi culturali e strategici delle organizzazioni sindacali e che hanno contribuito non poco ad ampliare ulteriormente i divari territoriali, generazionali e di genere che caratterizzano storicamente il nostro contesto economico e sociale. E a creare le precondizioni favorevoli per l’affermazione delle forze populiste anti-sistema e anti-casta.
Forze che si sono poste esplicitamente l’obiettivo di delegittimare il ruolo delle rappresentanze sociali, accusate al pari dei partiti politici per l’utilizzo indebito di privilegi ai danni della collettività, per la finalità di veicolare sul terreno politico il potenziale delle rivendicazioni sociali. Una escalation che ha raggiunto il suo culmine nella recente legislatura e con l’affermazione delle forze populiste anti-mercato.
L’emergenza sanitaria ha indubbiamente contribuito a cambiare le carte in tavola, a rimettere al centro la priorità di salvaguardare le imprese e il lavoro. Ma le illusioni sono vietate. Gli effetti della crisi tenderanno ad ampliare le contraddizioni economiche e sociali descritte in precedenza, a partire dai prossimi mesi. Non saranno i buoni propositi, in particolare quelli di utilizzare la crisi come opportunità per aumentare la quantità e la qualità degli investimenti, per ridurre la burocrazia, per rendere ambientalmente e socialmente sostenibile l’economia, a fare la differenza tra le buone e le cattive politiche. I cambiamenti saranno dolorosi, per le imprese, per il lavoro e per le famiglie. Destinati a generare una nuova domanda di sicurezza, con supplementi di spesa a carico dello Stato per la difesa delle condizioni esistenti. Incompatibili con l’esigenza di destinare le risorse disponibili verso le nuove opportunità di sviluppo. Anche tenendo conto della doverosa esigenza di offrire un ragionevole sostegno ai ceti sociali destinati a subire i costi delle trasformazioni economiche.
I tratti di questa potenziale evoluzione sono già evidenti nel dibattito politico: per il ruolo che dovrà assumere lo Stato nella gestione diretta nei salvataggi delle imprese, sul proseguo del blocco dei licenziamenti, sull’opportunità di ampliare l’entità dei provvedimenti assistenziali introducendo per legge nuove forme di salario minimo e reddito universale. Il tutto a discapito della conclamata volontà di potenziare, a parole, le politiche attive del lavoro.
Questi sono temi che non riguardano solo le formule del Governo, ma anche le modalità e i contenuti della governance dei processi economici e sociali. In buona sostanza, il ruolo che dovranno assumere le rappresentanze economiche e sociali nel guidare i processi di trasformazione. La nuova fase, per ragioni comprensibili, non potrà essere affrontata formulando l’elenco delle rivendicazioni, e della spesa da mettere in capo allo Stato, ma con l’assunzione di responsabilità attive.
I temi da declinare, con un approccio alternativo, sono molteplici. Le aziende e i territori rappresentano le sedi naturali per gestire le innovazioni e le riorganizzazioni produttive, l’implementazione delle competenze dei lavoratori, gli incrementi della produttività e la loro destinazione, la conciliazione dei carichi lavorativi con quelli familiari, la mobilità sostenibile del lavoro. I livelli di competenza e di esperienza acquisiti dai lavoratori, e la qualità delle politiche attive, rappresentano la leva, più efficace di qualsiasi norma di legge, per aumentare la probabilità di una buona occupazione.
I trascorsi storici hanno dotato le parti sociali di importanti strumenti di gestione di questi processi: enti bilaterali e fondi paritetici per promuovere i sostegni al reddito integrativo a quelli dello Stato, la formazione dei lavoratori, la previdenza complementare, le misure di welfare aziendale, la possibilità di interagire con la gestione dei sistemi di orientamento finalizzati all’inserimento lavorativo e all’alternanza tra scuola e lavoro. Una rete importante di servizi e di risorse che, allo stato attuale, ha generato risultati inferiori alle attese anche per l’assenza di scelte strategiche generali che potrebbero rendere maggiormente incisive le loro iniziative.
Tutto questo non dipende dalle concessioni che farà il Governo, ma dalla capacità delle parti sociali di giocare il loro ruolo all’altezza dei problemi.