Uniti per andare lontano. Potremmo riassumere con questo slogan, inventato sia ben chiaro, il mantra di tanti, forse troppi, che guardano all’Europa con qualche speranza, ma poi ne parlano pensando a Roma e alle beghe di casa. Perché in fondo il meccanismo è sempre lo stesso: che diversità c’è tra Roma e Bruxelles? Al limite pensiamo ai cavoletti confrontati con la coda alla vaccinara. E, ce lo diciamo noi, convinti che la coda la vinca sempre.
A parte che affermarlo così, senza pensarci, vuol dire non conoscere nulla della cucina belga, magari non proprio a prova di dieta ma una bomba di sapori antichi, ma poi si finisce per crederci e per risolvere il tutto con qualche affermazione tanto articolata che al confronto certe frasi di esimi militari sembrano il pensiero di Platone. No Bruxelles non è Roma e i problemi su là non hanno molto a che fare con quelli quaggiù. Per fortuna o per sfortuna ditelo voi sabato e domenica prossimi.
Lo spunto per questa riflessione ci viene dal documento che recentemente la Cisl ha diffuso presentando la “sua” Europa. I punti fondamentali sono quattro, ma ce n’è uno che ci ha colpito in particolare ed è il primo, cioè “Realizzare una governance partecipata”, un modo un po’ sindacalese per dire che imprese e sindacati devono essere sempre più coinvolti nei processi decisionali sulle grandi tematiche come quelle energetiche, climatiche e digitali. Difficile non essere d’accordo quando si sostiene che “Dialogo sociale, contrattazione e partecipazione devono essere i pilastri portanti di una nuova governance europea”, ma poi si tratta di entrare con i piedi nel piatto e lì i problemi sono millanta. Perché la Ces, la Confederazione europea dei sindacati, in sostanza l’associazione che riunisce la massima parte dei sindacati europei, soffre un po’, e usiamo una litote, degli stessi problemi che affliggono i sindacati locali. E non potrebbe essere diversamente: o pensate davvero che mescolando cavoletti e scottadito ne venga fuori un gustosissimo piatto a base di mammelle di bovino?
Il punto è che se l’Europa deve cambiare a nostro sommesso avviso anche il sindacato deve fare qualche passo avanti.
Non si tratta tanto di risolvere, come a Roma, antiche contrapposizioni magari aspettando che qualche amico/compagno si svegli dal sogno e realizzi che un secolo è passato e non tutto funziona come sotto la Terza Internazionale: il punto è che a Bruxelles i problemi interni al mondo sindacale sono moltiplicati dal numero dei soggetti, dalle singole storie nazionali, dalle dimensioni (perché contano anche quelle!), dalle culture e abitudini e, infine, dagli interessi di parte (miseri saranno ma sempre posizioni da cui gestire qualche potere sono).
I sindacati in Europa, per restare sul punto, ma poi diremo qualcosa anche delle controparti, non sono né tutti uguali, né tutti assimilabili, né tutti autonomi dai rispettivi Governi. E si badi: non stiamo parlando per forza di Ungheria o Slovacchia. Pensiamo ad esempio a Paesi, come quelli del Nord, in cui il mondo sindacale ha una sua forza tradizionale, è strutturato, contratta. In alcuni casi, ad esempio, contratta con il Governo anche su temi sensibilissimi come il sostegno agli affitti. Roba che da noi ce la sogniamo: al limite discutiamo delle tendine giovanili piantate davanti alle Università.
Ebbene: a parte le distorsioni che questo produce sul mercato immobiliare locale (ma sono un po’ cavoletti loro, direte giustamente), ma secondo voi quei sindacati devolveranno mai questa quota di potere a un livello più alto? No e, aggiungo io, giustamente. E chi oggi interloquisce con il Governo francese per Stellantis (che per quello italiano bastano le battutine e la Guardia di Finanza livornese), pensate che avrà mai voglia di farsi accompagnare da Macron da una delegazione in cui sono compresi polacchi, slovacchi e italiani? Magari sì, ma poi al Palais de l’Élysée ci torno da solo…
Il punto è che per i sindacati vale quel che si chiede ai Governi: la somma europea per funzionare deve devolvere qualcosa. Deve esserci meno Roma (e Praga, e Varsavia e Copenaghen e Helsinki e Malta e via elencando) perché ci sia più Bruxelles. Ma siamo davvero disposti a farlo? Cioè: siamo tutti disposti a pensarlo per i nostri successori, per quelli che verranno, che, ne siamo certi, rinunceranno volentieri a potere e privilegi in nome dell’ideale europeo. Ma noi?
Epperò non basta mettere d’accordo i sindacati e sarebbe già opera al limite del miracoloso (ma noi che crediamo sappiamo che lo Spirito soffia dove vuole e magari potrebbe anche decidere di dare un’occhiata alle teste dei sindacalisti), perché poi ci sarebbe da trovare percorsi contrattuali, concertativi, decisionali con la controparte. Sì, gli imprenditori che però per qualche europeo sono ancora i padroni, per qualche altro sono dei lavoratori autonomi, per qualcun altro sono dei polli da spennare. Già perché le associazioni imprenditoriali sono così diverse, diversificate e disuguali tra loro che al confronto i sindacati sono preclari esempi di unità e coesione.
Solo per restare alle questioni di base: se frequentate quei corridoi vi capiterà senza troppa difficoltà di sentire gente che si lamenta che i dipendenti pretendono aumenti salariali e che i giovani, che non hanno esperienza, bisogna pagarli anche se devi insegnar loro a lavorare. Siamo insomma ai ragionamenti che, almeno ufficialmente, si facevano qui intorno agli anni Cinquanta. Capite che non è mica facile, per tornare alla cucina, mescolare pesce e cioccolato e sperare che ne esca un fagiano “alla brabançonne”.
Gli è che per fare l’Europa non dobbiamo pensare al cambiamento degli altri, ma al nostro. Intendo proprio il nostro, quello delle nostre associazioni, dei nostri movimenti, dei nostri partiti. Non possiamo pensare che l’Europa sia una roba che nascerà senza che qualcun altro muoia perfino nel Vangelo il chicco di grano deve morire, figurarsi a Place Sainte Catherine!
Si può sognare la fine di quegli Stati-Nazione che hanno portato tante guerre negli ultimi 700 anni (e infatti c’è qualcuno che, forse perché non ne ha altri, si aggrappa a questi feticci quasi eccitato dall’idea di morire per loro), ma non si può mica pensare di sostituirli con un’Europa che ne contenga tutti i difetti e magari qualche pregio in meno. L’unico modo per ottenere qualche risultato è quella devoluzione di poteri che discende dalla rappresentanza politica democratica: allo stesso modo nascerà l’Europa dei sindacati quando i sindacati si penseranno in chiave europea. Ma appunto, noi sappiamo che la speranza è una virtù dell’oggi e non del domani…
Anche perché tra qualche anno, mica tanti però, nel G7 non ci sarà più nessun Paese europeo, neppure la Germania. E francamente non ci sembra che i sindacati cinesi e coreani del Nord siano degli esempi cui guardare con fiducia in chiave di diritti umani e di sociali.
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