Non so se lo si è notato, ma nella cacofonia della guerra, tra i pareri dei neutralisti a scartamento ridotto e dei guerrafondai in servizio permanente (non militare) effettivo, tra le bombe e i singulti sussultanti della pandemia Covid, tra imprenditori che a giorni alterni (uno sì e l’altro invece anche), annunciano che senza i soldi del Governo loro non andranno avanti, tra opinionisti che oggi dicono una cosa e domani l’altra tanto chi se ne ricorda, ebbene nel grand vacarme du monde, c’è un silenzio.



Si staglia una quiet zone (oggi siamo in vena di internazionalismi) dominata dalla riflessione, dalla meditazione. Non stiamo parlando del Tibet (quello la democrazia cinese tanto cara a quel gigante della politica che è Conte l’ha già messa a tacere da un pezzo), ma del pezzo più importante della società, delle associazioni più significative tra tutte, cioè i sindacati, e di quelli confederali in particolare.



Sarà che l’ultima volta che si sono ritrovati (almeno per i due terzi perché la Cisl giustamente e significativamente, prese le distanze da chi prendeva le distanze dalla libertà altrui in nome della propria vetero ideologia) non è andata benissimo. Sarà che a forza di distinguo ormai non si distinguono più i buoni dai cattivi, sarà che il Governo ha problemi assai seri da affrontare. Sarà quel che sarà, ma il risultato è che nei giornali, provare per credere, le sole notizie relative a un’attività sindacale sono quelle che riguardano le crisi aziendali e, dispersa in qualche fondo articolo, una voce: si parla, si dice, si mormora nelle segrete stanze, di un incontro tra Draghi e sindacati per un confronto sulla riforma delle pensioni. E pace se la murmuratio riguarda le prime settimane di marzo e ormai si sta avvicinando aprile: i tempi sono quelli che sono!



Due temi ci sono allora venuti all’occhio e alla mente. Il primo riguarda proprio le pensioni. Davvero i conti dell’Inps debbono ancora essere sottoposti a revisione? Certo il duo Conte-Salvini ha fatto danni e, in cambio di qualche migliaio di voti, ha condannato i giovani (moltissimo) e i non del tutto giovani (un po’ meno per carità, ma comunque anche loro) a pagare le pensioni di chi aveva deciso di averne abbastanza di lavorare e che era ora di ritirarsi a godersi una vecchiaia che (solo per loro), sarebbe cominciata a 60 anni. Certo la dirigenza Inps non si distingue per capacità e per sguardo al futuro. Certo il bilancio dello Stato è quel che è. Ma, passatecelo, le pensioni sono proprio il capitolo principale su cui confrontarsi?

Forse principale no, diciamocelo, ma crediamo che alla fin fine sia il solo tema sul quale ai sindacati convenga accettare di dialogare con palazzo Chigi.

La nostra sensazione, infatti, è che alla lunga il combinato disposto tra l’influenza, mai venuta meno, di qualche ex segretario Cgil sulla sua organizzazione, il richiamo landiniano alla foresta originaria, la svolta filo-sinistra della Uil con isolamento della parte diciamo più aperta a quella che una volta era Forza Italia, abbia dislocato l’asse politico di almeno due confederazioni su tre verso posizioni più massimaliste. Quanto alla terza, la Cisl, ci pare che il giusto e solenne no alla manifestazione di piazza oggettivamente utile a Putin sia rimasto, politicamente e in sede pubblica, un po’ troppo isolato e deboluccio. 

Il neutralismo di tanta parte della gauche ZTL ha coagulato antiche pulsioni, ridestato vecchi arnesi della politica sindacale e non (si è perfino rivisto il mitico Cremaschi: gli mancava solo il cappellino alla Lenin e ci saremmo rivisti giovani!) e questo ha polarizzato la politica sindacale. Di qua o di là: poi, per l’amor del cielo, i distinguo piovono come nel giorno del diluvio, i se e i ma sono numerosi come le stelle nel cielo, i però e le sfumature sono assai più folti delle scale di grigio, ma la sensazione, ripetiamo sensazione mica certezza assoluta e granitica, gli è che se mai si dovesse discutere di qualche cosa davanti a Draghi le dissomiglianze tra una parte e l’altra del tavolo sarebbero in minor quantità di quelle esistenti tra i sindacati stessi. 

Proviamo a immaginare di dover discutere di un problema. Ne buttiamo lì uno qualsiasi. Esempio: aumentare o no le spese militari al 2%? Tema scottante, ma che si traduce in cifre di bilancio, cioè in soldi da togliere a qualcuno e da dare a qualcun altro. Cosa fare? Come far sì che i tre sindacati si presentino insieme e abbiano una posizione unica, credibile, ragionevole condivisa? Come conciliare i reduci del Patto di Varsavia con chi atlantista lo fu già nella prima ora? Come sintetizzare le opinioni di chi ritiene che tra Putin e Biden la sola differenza non sia tanto nell’età e nella lingua ma anche nell’idea stessa di democrazia e di civiltà, con quelle di chi pensa che gli ucraini dovrebbero immolarsi per la nostra tranquillità e il nostro benessere e quindi: che si tacciano e si sottomettano o, se proprio vogliono farsi massacrare, che lo facciano in silenzio e senza coinvolgerci.

Magari non andrà così, magari ci sono documenti già belli e pronti, magari la Cisl accetterà di schierarsi sulle posizioni di Giuseppe Conte (e, sempre e ancora magari, usando pure allo scopo le frasi nobili e alte di papa Francesco: quando serve è materiale facile da adoperare. Quando serve, of course, mica sempre). Magari invece la Cgil accetterà i ragionamenti filoatlantici e pro-libertà (nostra e altrui) della Cisl abbandonando i neutralismi e i neneismi (nome nuovo ma vecchi contenuti: gratta il verde …). Magari gli elefanti avranno preso a volare e le aquile a nuotare. Appunto, magari!

Alle corte: noi non siamo per nulla convinti che l’assenza di un tavolo di confronto tra Governo e sindacati confederali, e la mancanza di un qualunque programma, cioè interesse, per trattative serie e costruttive, dipendano dalla scarsa considerazione che Draghi avrebbe verso i corpi intermedi della società. Tendiamo piuttosto a ritenere che i silenzi dipendano da un lato dall’oggettiva difficoltà del momento storico, ma che dall’altro essi siano in buona parte anche il frutto di una difficoltà intrinseca di elaborazione politica da parte di quelle associazioni sindacali che pur rappresentano, oggettivamente, milioni di italiani.

Nondimeno, basterebbe non lasciarsi travolgere dal mare di chiacchiere per capire che quel che stiamo vivendo è un passaggio storico decisivo: il dopoguerra si preparò durante il ventennio e nel corso del più terribile conflitto che l’Europa avesse mai visto. 

Certo, ai tavoli allora si sedevano gli Achille Grandi, i Bruno Buozzi, gli Emilio Canevari, i Giulio Pastore e i Giuseppe Di Vittorio. Gente diversa, strutturalmente diversa per idee, storia, caratteri e visione politica. Ma anche gente che mai si sarebbe fatta sorpassare, in tema di atlantismo, di libertà e di democrazia, da una Giorgia Meloni qualunque! 

Passatisti e nostalgici noi? Sì e fieri di esserlo, se significa chiedere al sindacato di tornare a un’elaborazione culturale di ampio respiro e di alto profilo: quanto le cose si fanno dure, allora i duri entrano in gioco. 

A noi sembra arrivato il momento di dividere chi ha una vision del futuro da chi ha solo le visioni.

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