Il 4 settembre scorso i segretari generali dei metalmeccanici hanno presentato la piattaforma rivendicativa per il rinnovo contrattuale del prossimo triennio (2020-2022) che ora sarà sottoposta alla consultazione dei lavoratori. Immagino che durante la conferenza stampa avranno notato e fatto notare che cinquant’anni or sono, proprio in quelle stesse giornate, iniziava, entrando subito nel vivo, il rinnovo che caratterizzò l’autunno caldo. La narrazione a cui ci accingiamo non pretende di trovare una linea di continuità (che peraltro non esiste), tra quegli eventi e quelli di oggi. Ci preme solo ricordare la ricorrenza di un evento che cambiò non solo la storia del sindacato ma anche quella del Paese. La carta rivendicativa del 1969 venne approvata alla fine di luglio di un anno ricco di iniziative e di vittorie sindacali (il superamento delle zone salariali e la riforma delle pensioni). Le richieste risultarono dirompenti: un aumento salariale di 75 lire l’ora; la parità normativa tra operai ed impiegati; la riduzione dell’orario di lavoro a 40 ore settimanali lasciando immutata la retribuzione. A questi aspetti si aggiungeva un ricco pacchetto di diritti sindacali (l’assemblea in orario di lavoro, i permessi, la sede, la trattenuta dei contributi sindacali in busta paga e quant’altro trovò in seguito (nel maggio del 1970) sanzione legislativa nello Statuto dei lavoratori (legge n. 300).
Ai primi giorni di settembre la frittata era fatta. La Fiat annunciò di dover effettuare alcune migliaia di sospensioni per esigenze produttive. I leader sindacali sostennero subito che questa misura era una ritorsione contro il rinnovo contrattuale; chiesero e pretesero l’intervento del Governo (dopo la morte di Giacomo Brodolini era divenuto ministro del Lavoro Carlo Donat Cattin) allo scopo di far rientrare il provvedimento. Altrimenti non sarebbero stati disponibili ad iniziare le trattative. La vicenda suscitò un enorme scalpore: tutta la categoria si metteva in gioco per i lavoratori della Fiat. La vertenza aveva innestato la quarta fin dall’inizio. Il ministro del Lavoro convocò l’Avvocato e riuscì ad ottenere – sia pure in due tempi – il ritiro delle sospensioni. I telegiornali dell’epoca, con la rudezza del bianco e nero, ripresero impietosamente Gianni Agnelli all’uscita dal brutto palazzo di via Flavia, soffermandosi, in particolare, sullo sguardo, intenso e meravigliato, come quello di una persona che aveva appena assistito al nascere di una nuova era.
Dopo questo movimentato inizio, poi, era partito il negoziato vero e proprio. Si svolgeva in quella che, allora, era la sede della Confindustria, a Roma, in piazza Venezia, proprio di fronte allo storico balcone, al piano terra (l’associazione imprenditoriale si è trasferita da tempo all’Eur). Ma in verità si trattò di un semplice “incontrarsi e dirsi addio”, nel senso che le trattative si interruppero bruscamente a seguito di una netta presa di posizione della delegazione degli industriali metalmeccanici sulla cosiddetta premessa del contratto (ovvero la clausola di rinvio alla contrattazione aziendale) che aveva racchiuso, nel 1963, il compromesso sulla riforma della struttura contrattuale. I datori di lavoro sostenevano che, nelle esperienze di contrattazione articolata realizzate negli ultimi anni, quel patto era stato violato e i sindacati avevano ampiamente travalicato gli ambiti di contrattazione consentiti.
Pertanto, la delegazione imprenditoriale chiedeva che venisse definita nuovamente la premessa, indicando i confini (magari più ampi di quelli precedenti) della contrattazione nazionale e aziendale. I sindacati replicavano che erano state ambedue le parti sociali, nella loro autonomia, ad andare “oltre” gli impegni della premessa, a promuoverne una interpretazione evolutiva, che doveva servire di base anche per il futuro. Pertanto, nessuna modifica era necessaria. Anzi, a loro avviso, la pretesa della Confindustria costituiva una pregiudiziale sul negoziato. Come si può notare, il confronto aveva preso una piega (anche di contenuto giuridico) di notevole spessore. Fatto sta che la richiesta della Confindustria provocò l’interruzione delle trattative e l’avvio di una intensa fase di lotte durissime (che cessarono – questa fu una delle tante novità – solamente dopo la firma del contratto, mentre in precedenza, bastava la convocazione delle trattative per fermare gli scioperi). Il conflitto fu immediatamente caratterizzato da una crescente e intensa mobilitazione dei lavoratori. Vennero intraprese forme di agitazione molto articolate, interne alle aziende: scioperi di reparto, di gruppo, a scacchiera, promosse e dirette da delegati espressione delle tre sigle di categoria, sulla base di “pacchetti” di ore stabiliti dalle organizzazioni. Nello stesso tempo, si svolsero (un’altra esperienza nuova) alcune grandi manifestazioni nazionali (a Torino e a Roma). Il Governo intervenne con un lodo sulla questione della premessa che accoglieva pienamente le aspettative dei sindacati: il testo non avrebbe subito modifiche, ma sarebbe stato interpretato sulla base delle esperienze compiute.
Così, in un contratto collettivo entrò una clausola che doveva essere intesa in maniera completamente diversa da come risultava dalla lettura testuale della norma. Finalmente, la trattativa si spostò nel merito, in un contesto di forte tensione sociale, culminata con la strage (tuttora misteriosa e non chiarita) alla filiale della Banca dell’Agricoltura, a Milano, il 12 dicembre. Ormai alla Confindustria (al pari dell’Intersind, l’associazione delle aziende a partecipazione statale, sempre più malleabile) non rimaneva che capitolare. Pretese solamente che ad imporre la sonora sconfitta fosse l’Esecutivo, attraverso la mediazione del ministro del Lavoro. A Natale tutto era finito. I contenuti del rinnovo contrattuale sfioravano l’incredibile: 65 lire di aumento salariale in misura fissa e uguale per tutti; una gigantesca riduzione dell’orario (in taluni settori si trattò di ben 4 ore) comunque all’interno della durata del contratto; una netta parificazione di taluni delicati istituti normativi (ad esempio: il trattamento economico della malattia, la durata delle ferie); un robusto pacchetto di diritti sindacali, un capitolo essenziale che praticamente nasceva in quei tempi.
Le assemblee di ratifica furono un’apoteosi. Raramente un gruppo dirigente ha goduto di tanto consenso come quello che i lavoratori metalmeccanici rivolsero ai loro sindacati. Le iscrizioni, in pochi anni, vennero triplicate. Il meccanismo della trattenuta in busta paga gonfiò a dismisura il portafoglio delle organizzazioni. Decine di migliaia di nuovi attivisti (i delegati di gruppo omogeneo) si arruolarono entusiasti nelle file sindacali. La forza accumulata nei pochi mesi di quella vertenza si trasformò in una centrale energetica che alimentò per decenni la cultura, le scelte, i valori del sindacato. Tutti volevano fare come i metalmeccanici, anche quando non era proprio il caso. E i protagonisti di quella battaglia per molti anni prenotarono le cariche più importanti negli organismi dirigenti dei loro sindacati. A cinquant’anni di distanza, il vero interrogativo da porre a proposito di quella stagione è un altro: fino a che punto il “glorioso” contratto dei metalmeccanici del 1969 ha influito sulla rottura di un equilibrio tra i diversi fattori della produzione e quali effetti si sono prodotti sull’economia italiana? È difficile criticare i cambiamenti quando essi hanno successo. Si sono scritti milioni di parole sul significato sociale della “grande marcia” della classe operaia, sugli effetti riparatori e di riscatto da una condizione di “cittadinanza minore” che il contratto del 1969 seppe promuovere. Rimane il fatto, però, che l’apparato industriale fu in grado di assorbire la batosta unicamente attraverso la fuoriuscita dai vincoli dei mercati internazionali, ricercando la perduta competitività lungo il percorso accidentato della svalutazione e dell’inflazione.
Come riassumere quel conflitto epocale tra le rappresentanze dei datori di lavoro e dei lavoratori? La Confindustria confermò la sua ostilità nei confronti della contrattazione decentrata che era vista come un’invasione nelle prerogative dell’impresa, ma perse in modo definitivo questa battaglia. I sindacati, dal canto loro, non si posero quei problemi di compatibilità che in seguito hanno fatto parte – dopo il protocollo del 1993 – del codice delle relazioni industriali. Avanguardie del processo unitario dopo l’autunno caldo, le federazioni dei metalmeccanici hanno conosciuto, in tempi più recenti, fasi anche lunghe di polemiche e divisioni: Fim-Cisl e Uilm-Uil da una parte, la Fiom-Cgil dall’altra. I sindacati hanno ritrovato l’unità in occasione del contratto che viene a scadenza a fine anno, del quale nei giorni scorsi è stata presentata la piattaforma. È da allora che la politica rivendicativa cambia di segno e si incontra con la medesima impostazione portata avanti dalla Federmeccanica, l’organizzazione dei datori di lavoro, già annoverata in passato tra i falchi dello schieramento datoriale. L’apparato produttivo italiano – sembra essere la convinzione comune – ha accumulato un vero e proprio gap anche in materia di produttività e può recuperare uno spread di competitività, non solo con gli investimenti, ma anche attraverso un utilizzo più efficiente e moderno del fattore lavoro in tutti i suoi aspetti, riportando lo scambio tra retribuzione e prestazione laddove ‘’girano le macchine’’, favorendo la c.d. contrattazione di prossimità.
In quel contratto, l’ammontare prevalente delle risorse (ad eccezione di quelle destinate ad iniziative di welfare necessariamente nazionali e di categoria, come la previdenza integrativa pensionistica e sanitaria) era distribuito nell’impresa. Il contratto nazionale conservava un ruolo di protezione del potere d’acquisto delle retribuzioni, ma avrebbe esercitato queste funzioni ex post ovvero una volta che fosse emerso un differenziale effettivo con l’andamento delle retribuzioni. In sostanza veniva meno un’idea di contratto nazionale come momento ed occasione di un miglioramento retributivo per tutti i lavoratori senza che il sistema delle imprese ottenesse qualche contropartita in cambio, se non il cessare degli scioperi. Faceva poi il suo ingresso nella contrattazione collettiva il diritto soggettivo alla formazione, con l’obiettivo di porre il capitale umano in grado di far evolvere rapidamente il proprio sapere in funzione dell’evoluzione dei vari settori dell’economia attraverso la riqualificazione, la riconversione e l’arricchimento delle conoscenze. Nella piattaforma presentata nei giorni scorsi il punto di forza, oltre ad un ampliamento dei diritti di partecipazione dei lavoratori, riguarda quello che viene definito il contratto delle competenze (inquadramento, certificazione, formazione). Va sottolineato, tuttavia, un sostanziale passo indietro rispetto all’enfasi posta nel precedente contratto 2017-2019 sulla contrattazione di prossimità. Spicca infatti la rivendicazione di un incremento salariale dell’8%, che dovrebbe compensare la scarsa diffusione della contrattazione aziendale specie nelle piccole imprese, ma che nei fatti riconsegna un ruolo primario alla contrattazione nazionale di categoria. La piattaforma non è reticente a questo proposito: ‘’Riconfermiamo – è scritto – il modello scaturito dal Ccnl del 26 novembre 2016 che ha prodotto la riconferma dei due livelli di contrattazione e numerose innovazioni contrattuali per i lavoratori, ma l’esigibilità di questo modello, introdotto in via sperimentale, ha avuto un’efficacia molto al di sotto delle aspettative nella diffusione della contrattazione decentrata e con essa la capacità di distribuire profitti e produttività’’. Si ritorna così a remunerare una produttività che – a livello di categoria – è una pura invenzione, soltanto perché non la si riesce a contrattare laddove si produce.