Lo Statuto dei lavoratori giunse al culmine di una fase di ampia espansione economica e di grandi fermenti e conflitti sociali, suggellando con la forza della legge molti diritti per i quali si era a lungo lottato. Quella legge – proposta da Giacomo Brodolini e concepita da Gino Giugni – non fu esente da critiche, specialmente perché riservava alcune tutele alle imprese con più di 15 dipendenti: tra queste, quelle “di sostegno” alla cittadinanza dei sindacati nei luoghi di lavoro e quella che prevedeva la tutela reintegratoria contro i licenziamenti illegittimi. Senonché, essendo la legge il frutto di un compromesso tra forze di diversa ispirazione ideale, quello era il punto di equilibrio per garantirne l’approvazione.
D’altronde, non mancavano norme valide per tutte le imprese, come quelle sulla libertà e dignità del lavoratore, che tutelavano contro odiose pratiche, come l’ingerenza sulle opinioni personali dei lavoratori, l’indebito utilizzo dei sistemi di controllo, gli abusi del potere disciplinare, il mancato rispetto della professionalità; o come quelle che vietavano le pratiche discriminatorie e quelle abusive tese a inquinare la normale dialettica tra le parti. Non a caso si scrisse che con lo Statuto i principi costituzionali entrarono in fabbrica, specie quelli volti alla tutela della dignità del lavoratore come persona, e che lo Statuto diede piena consapevolezza ai lavoratori dei propri diritti.
Quella legge è tuttora in vigore anche se alcune sue norme hanno subìto importanti modifiche. Del resto, dal 1970 molta acqua è passata sotto i ponti. La crisi petrolifera degli anni Settanta, la caduta del Muro di Berlino e l’avvento della globalizzazione, lo sviluppo della tecnologia informatica e le più recenti crisi finanziarie internazionali hanno modificato gli assetti industriali e l’organizzazione del lavoro, incidendo sulle opportunità occupazionali e generando conflitti intergenerazionali. Probabilmente anche l’attuale emergenza sanitaria inciderà sulle trasformazioni dei sistemi produttivi.
La grande fabbrica fordista non rappresenta più il centro del mondo produttivo. Nel momento in cui la proprietà delle imprese si concentra in aggregazioni multinazionali, gli apparati produttivi tendono a snellirsi secondo i principi di una lean production favorita dall’innovazione tecnologica e che fa leva su esternalizzazioni incentrate su catene di appalti e subappalti che spesso evidenziano sacche di sottotutela e di rischi per la stessa salute e sicurezza dei lavoratori.
Questi ultimi non corrispondono più, se non in parte, al modello dell'”operaio massa”. Il lavoro è spesso temporaneo, a tempo parziale, somministrato tramite agenzia, intermittente, spesso “travestito” da falso lavoro autonomo. Nuove etnie, nuove lingue e nuove religioni popolano le fabbriche. Le donne hanno fatto il loro ingresso nel mercato del lavoro, ma con livelli salariali e posizioni professionali quasi sempre inferiori e spesso con rapporti di part-time non volontario.
La tecnologia informatica sta profondamente modificando il modo di lavorare, spesso alterando le due categorie concettuali che contraddistinguono il rapporto di lavoro: il tempo e lo spazio. Emergono peraltro anche singolari paradossi, perché se la tecnologia fa emergere un mercato del lavoro che esige competenze sofisticate e, grazie all’intelligenza artificiale, sembra finalmente liberare l’uomo dalla fatica fisica, per altro verso tende talora a far riaffiorare modalità primordiali di effettuazione della prestazione di lavoro: si pensi, in esito alla crescente diffusione dell’e-commerce, ai ritmi di lavoro della logistica degni della fabbrica fordista d’antan; o al caso dei rider che, a fronte di una organizzazione ipertecnologica mediante la piattaforma e lo smartphone, eseguono una prestazione che richiede fiato, muscoli e massima attenzione per evitare incidenti. Un paradosso che emerge anche in questi giorni drammatici in cui, a fronte dell’esplosione dello smart working, ci siamo resi conto che per poterci approvvigionare dei prodotti agricoli occorrevano le braccia di coloro che finora sono stati asserviti alla logica perversa dello sfruttamento senza diritti.
Anche nel terzo millennio il lavoro ha ancora bisogno di essere seriamente tutelato, come postula la nostra Costituzione, e, sebbene siano state pensate per una stagione diversa, molte delle tutele dello Statuto sono tuttora attuali. Di fronte al mutato contesto di riferimento economico-produttivo occorre tuttavia attualizzare i due caposaldi della nostra Costituzione: il riconoscimento della dignità sociale della persona che lavora e la tutela del lavoro in tutte le sue forme e manifestazioni.
Da vari anni la situazione di sottoprotezione sociale non è più confinata nell’area del lavoro subordinato in senso proprio, ma si estende verso settori sempre più ampi di lavoro solo formalmente autonomo che invece rivelano i caratteri della dipendenza – se non giuridica – almeno economica nei confronti di chi dà lavoro. Se è vero che l’art. 35 Cost. tutela il lavoro in tutte le sue forme, non è tollerabile che nessuna tutela sia applicabile là dove si vive essenzialmente del proprio lavoro pur senza subordinazione. Si pensi al fenomeno delle “partite Iva”, il cui tentato ridimensionamento è stato più apparente che reale sol che si consideri l’abuso dello schermo dell’iscrizione a un albo professionale. I diritti fondamentali della persona che lavora – il giusto compenso, la tutela della salute e sicurezza, la libertà di espressione e di organizzazione sindacale, la tutela per la maternità – debbono essere universalmente riconosciuti a prescindere dalla qualificazione giuridica dei contratti di lavoro.
Per altro verso, come traspare anche da recenti pronunce della Corte costituzionale, difficilmente la tutela reale dell’art. 18 Stat. lav. tornerà in auge al di là delle limitate ipotesi di licenziamenti illegittimi per le quali ancora è prevista. Pur avendo rappresentato una grande conquista di civiltà e di garanzia di effettività dei diritti del lavoro, forse quella norma è stata anche sopravvalutata perché, al contrario di altri Paesi, il nostro non dispone di un efficiente e solido sistema di ammortizzatori sociali, né di forti servizi per l’impiego, cosicché la lotta contro i drammi della disoccupazione è stata combattuta difendendo a oltranza il lavoro che c’era e non allestendo un moderno sistema sia di welfare, sia di workfare, vale a dire di valide politiche attive per il lavoro.
Al di là di ciò che ci hanno detto recenti statistiche che meriterebbero seri approfondimenti, oggi di lavoro ce n’è sempre meno perché c’è sempre meno la capacità di un’intrapresa economica all’altezza di una competizione che gioca non solo sulla riduzione dei costi, ma anche sulla qualità dell’organizzazione e dei prodotti. E soprattutto manca una politica industriale capace di progettare strategicamente il futuro del Paese e non volta solo a elargire sostegni economici alle imprese. Le grandi conquiste del lavoro e lo stesso Statuto dei lavoratori giunsero al culmine di una fase di grande espansione economica. Oggi invece ci si muove in una dimensione essenzialmente difensiva, incapaci di pensare in grande e di interpretare un presente che è già futuro.
Ciò costituisce una sfida epocale per il movimento sindacale che non può rinunciare a rappresentare gli interessi di lavoratori dispersi e sempre più portati a operare individualmente, slegati da un contesto comune ad altri. Per svolgere il proprio ruolo costituzionale il sindacato non può rinunciare a quell’imprescindibile analisi dei fenomeni in atto che può consentirgli di intravvedere nuovi modelli di tutela per le nuove forme di lavoro e per le nuove professionalità e di dar a esse vita innanzitutto mediante il suo strumento fondamentale: la contrattazione collettiva, certamente nazionale, ma anche decentrata. D’altronde, molte conquiste che nell’età dell’oro del diritto del lavoro trovarono riconoscimento nella legge erano state anticipate negli accordi collettivi.
Senza i corpi intermedi e la loro azione di rappresentanza collettiva degli interessi economico-sociali, è a rischio la stessa tenuta democratica e la coesione sociale. Non allude forse a questo la nostra Costituzione quando nell’art. 1 fonda sul lavoro la Repubblica democratica e nell’art. 3 evoca l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese come strumento del principio di uguaglianza sostanziale?