Il 4 ottobre 2009, dopo lunga malattia, moriva a Roma Gino Giugni. Dalla sua biografia emerge una delle maggiori personalità del diritto, della cultura, della politica e del vivere civile della seconda metà del secolo scorso. Gino Giugni era nato il 1° agosto 1927 a Genova, dove si era laureato nel novembre 1949 con una tesi sul tema «Dal delitto di coalizione al diritto di sciopero» con relatore Giuliano Vassalli. Dopo un soggiorno di studio negli Stati Uniti, nell’Università del Wisconsin (1951-52), collaborò con gli uffici studi della Cisl (1953-60) dell’Eni (1955-57), dell’Iri e dell’Intersind, l’associazione sindacale delle aziende a PPSS (1957-1968); aveva poi diretto l’ufficio legislativo del ministero del Lavoro (1968-72 e 1974-75). Conseguì la libera docenza nel 1958 e ottenne l’incarico dell’insegnamento di diritto del lavoro a Bari dal 1960 al 1963.



Vinse il concorso a cattedra nel 1962 e mantenne la cattedra di diritto del lavoro nella facoltà di giurisprudenza barese dal 1963 al 1974, poi nella facoltà di giurisprudenza dell’Università “La Sapienza” di Roma dal 1974 (negli ultimi anni di insegnamento era passato alla Luiss). Nel 1979 aveva fondato il Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, di cui fu direttore. Nel 1983 fu eletto al Senato nelle liste del Psi e rieletto nel 1989 e nel 1992, sempre nel Collegio di San Donà di Piave.



Al Senato assunse la carica di presidente della commissione Lavoro. Dal 1993 al 1994 fu ministro del Lavoro nel governo Ciampi. In tale veste fu protagonista insieme con la parti sociali della stipula del Protocollo del 1993 in cui furono razionalizzate e ridefinite le regole della contrattazione collettiva (la cui architettura portante è sostanzialmente ancora operante nonostante le modifiche intervenute in seguito). Dal 1996 al 2002 fu presidente della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali. Nel 1997 su incarico del primo governo Prodi presiedette una Commissione dedicata alla riforma delle relazioni industriali.



Gino Giugni ha legato il suo nome allo Statuto dei Lavoratori (legge n. 300/1970) a cui lavorò a fianco dei ministri del Lavoro Giacomo Brodolini dapprima, poi di Carlo Donat Cattin. Per ricordare il Maestro e l’amico voglio ricordare come Gino raccontò i retroscena di quell’esperienza che poi si rivelò fondamentale lungo tutta la vita di giurista e di uomo politico. Mi sono servito di alcuni brani tratti da talune interviste, in momenti diversi, di Pietro Ichino a Giugni, che l’autore ha voluto risistemare e pubblicare, nel decennale della scomparsa, sulla rivista on line Lavoro Diritti Europa nell’ambito di una commemorazione a più voci del grande Maestro. I lettori potranno apprezzare anche il sense of humor di Giugni nel narrare quegli eventi.

“Nel 1968, il governo Rumor con Brodolini ministro del Lavoro – narra Giugni – segna per me una svolta radicale: fino ad allora avevo collaborato regolarmente con Iri e Intersind; nel 1968 passai all’Ufficio legislativo del ministero del Lavoro. Lì iniziò la vicenda dello Statuto dei lavoratori, a cui teneva tanto Nenni; la legge n. 604 del 1966 ne era stata un primo assaggio, e il programma del nuovo Governo abbracciava anche la riforma dei rapporti di lavoro. Brodolini mi diede l’incarico di elaborarne il progetto, presiedendo una commissione di esperti”.

Poi Giugni prosegue: “All’insediamento della commissione avvertii il ministro che non avremmo svolto il ruolo – frequente nelle commissioni ministeriali – di insabbiatori dell’iniziativa. E mantenemmo la parola. Nel mese di giugno 1968 il progetto venne presentato a un incontro di ministri e segretari di partito. Fu per me – ricorda Gino – un’esperienza nuova e, per allora, straordinaria: c’erano tutti, perfino Tanassi (allora segretario del Psdi, ndr), che per fortuna stava zitto; perfino (Ugo, ndr) La Malfa («quello vero», come si dice a volte perfidamente alludendo a quello attuale: il figlio Giorgio, ndr), che non voleva le assemblee politiche nei luoghi di lavoro (neppure noi le volevamo); perfino il presidente Rumoe, che si preoccupava dei piccoli imprenditori, che sono quelli che votano DC; con mio stupore non c’era invece alcun portavoce del padrone. La verità è – la considerazione è molto interessante – che la lotta politica in Italia, dopo il fascismo, non è mai stata lotta di classe; il padrone, l’industriale, hanno modesta udienza in sede politica. Dominanti sono gli interessi elettoralmente significativi: le coalizioni dei coltivatori diretti, quelle degli artigiani, le cooperative di tutti i colori, e perfino le associazioni di invalidi; oltre, naturalmente, ai gruppi di potere annidati nelle grandi istituzioni pubbliche che finanziano i partiti”.

La collaborazione con Giacomo Brodolini finì presto perché il ministro morì a Zurigo (dove si era recato per un intervento chirurgico) nel luglio del 1969. Pochi giorni prima di partire Brodolini aveva onorato l’impegno di presentare al Parlamento il disegno di legge; ma questo – conferma Giugni – non era stato accolto molto bene, né da destra, né da sinistra: la brezza gauchista era arrivata anche al Senato, e il progetto appariva a sinistra troppo prudente. Il rischio che, per andar più a sinistra, si potesse scivolare nel lassismo era ben presente al ministro; mi salutò con la frase testuale: «Cerca di seguire i lavori parlamentari, non vorrei che lo Statuto dei lavoratori diventasse lo Statuto dei lavativi». Il rischio – ammette Giugni – fu corso, e qualche cedimento ebbe luogo, anche se, a mio parere, più nelle letture che della nuova legge fecero giudici e giuristi che non nel testo di essa. Il mio compito di consulente giuridico del ministro continuò – ricorda Giugni – anche con Donat Cattin, successore di Brodolini in tale ufficio”.

Merita di essere citato il giudizio che Giugni dava di questo leader democristiano che, anche da posizioni di minoranza seppe sempre farsi valere nel partito e nei governi. “Un uomo scorbutico, autoritario, ma molto intelligente e fortemente motivato sul piano ideale. Ci intendevamo bene”. Ma la discussione parlamentare non fu pacifica (il Pci si astenne nella votazione finale). “È storia nota – rammenta Giugni – com’è nota la contrapposizione tra coloro che avevano elaborato un progetto di Statuto sulle tavole dei diritti individuali e dei diritti costituzionali, cioè i sostenitori del garantismo nel rapporto individuale, e quelli che concepivano invece lo Statuto come legislazione di sostegno al sindacato, supporto legislativo all’iniziativa collettiva, che fu in effetti quel tanto di nuovo che riuscimmo a far penetrare nella legge del 1970”.

A Pietro Ichino che gli chiede una valutazione dello Statuto e dei sui effetti nel diritto del lavoro e nei processi economico-sociali, Giugni risponde: “Quando è stato interpretato correttamente, lo Statuto è servito ad agevolare l’assestamento delle relazioni contrattuali, soprattutto a livello di impresa, e a stabilire il primato di esse come fonte regolativa dei rapporti. Questo è stato certamente un bene; e questo era il suo scopo primario ed essenziale. Del resto, se c’è una speranza che il sindacalismo italiano superi la cultura del rivendicazionismo come puro strumento di agitazione, questa speranza non può che fondarsi su di un consolidamento dell’esperienza della contrattazione collettiva, anche a livello aziendale”.

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