Il recente sciopero generale proclamato dalla Cgil e dalla Uil ha messo una pietra tombale sulla possibilità delle parti sociali di svolgere un ruolo propulsivo nell’attuazione del Piano nazionale di resilienza e di ripresa (Pnrr). Un esito facilmente prevedibile data la sostanziale indisponibilità di una parte delle organizzazioni sindacali verso la proposta del Patto per l’Italia avanzata dal Presidente della Confindustria Bonomi. Una scelta che ha indebolito la capacità delle parti sociali di incidere sulle scelte di un Esecutivo obbligato, per ragioni facilmente comprensibili, a privilegiare la ricerca della mediazione tra le forze politiche della composita maggioranza parlamentare che lo sostiene. E che conferma la mancanza di una comune visione sul ruolo che dovrebbero svolgere le parti sociali per contribuire al raggiungimento degli obiettivi.
Il successo del Pnrr dipende dalla capacità di rimediare agli squilibri generazionali, di genere, settoriali e territoriali che caratterizzano l’economia e il mercato del lavoro. Criticità che non sono il frutto di una carenza storica delle risorse dedicate allo scopo, ma di scelte politiche sbagliate delle istituzioni, con il concorso attivo delle stesse parti sociali. È del tutto impensabile che i rimedi si possano limitare nella messa a punto di un programma di utilizzo delle risorse finanziarie calato dall’alto per gestire trasformazioni che coinvolgeranno milioni di imprese e di lavoratori. Le avvisaglie della complessità di queste transizioni sono già manifeste nella ripresa dell’inflazione, nella difficoltà di garantire gli approvvigionamento delle fonti energetiche a costi ragionevoli, dalla carenza di risorse umane adeguate per gestire questi cambiamenti.
Al di là della naturale e permanente divergenza degli interessi relativi alla redistribuzione del valore aggiunto, le rappresentanze dei datori di lavoro e dei lavoratori, oltre che rivendicare il diritto di essere debitamente coinvolte, dovrebbero avvertire il dovere di concorrere al raggiungimento di alcuni obiettivi prioritari, a partire dall’esigenza di rimediare al mancato impegno delle persone in età di lavoro, che non ha paragoni nel contesto dei Paesi sviluppati, e di aumentare gli investimenti sulle risorse umane per migliorare le competenze dei lavoratori. Pensare che questo compito possa essere assolto tramite l’assunzione di 11 mila nuovi funzionari nei Centri per l’impiego pubblici e distribuendo le risorse del Pnrr ai centri di formazione è pura follia. Per per tali scopi un ruolo attivo delle parti sociali, e degli strumenti promossi dalla contrattazione collettiva può favorire l’individuazione dei fabbisogni territoriali di intervento e orientare la programmazione degli interventi formativi finalizzati a far incontrare la domanda e l’offerta di lavoro, per l’obiettivo di rendere sostenibile la mobilità del lavoro e ridurre i tempi delle transizioni lavorative.
L’aumento della produttività rappresenta il secondo pilastro per una ripresa stabile dell’economia e per aumentare le retribuzioni dei lavoratori. Un tema particolarmente esposto in molti settori dei servizi, la causa delle basse remunerazioni e del sottoutilizzo delle potenzialità di sviluppo occupazionale. La digitalizzazione delle organizzazioni contiene le potenzialità per recuperare una parte significativa dei ritardi e migliorare le competenze dei lavoratori.
L’intensità delle micro imprese in questi ambiti di attività aumenta la responsabilità delle associazioni nel mettere a punto modelli di contrattazione territoriali coerenti per questi obiettivi, offrendo supporti adeguati nella gestione delle riorganizzazioni produttive.
La terza priorità è quella di rendere attrattivi i territori caratterizzati da bassi volumi di investimento pubblici e privati, con la promozione di una massa critica di interventi sul versante delle semplificazioni burocratiche, del rispetto della legalità, per la formazione delle risorse umane, per massimizzare l’utilizzo degli incentivi per il capitale e per l’occupazione.
Su queste priorità dovrebbero essere orientate le nuove politiche fiscali, in particolare quelle rivolte a ridurre il cuneo fiscale per le retribuzioni basse, per gli aumenti salariali legati alla produttività e per le prestazioni del welfare aziendale e territoriale; con i crediti di imposta per gli interventi formativi finanziati dalle imprese.
I modelli di contrattazione dovrebbero essere adeguati per gli scopi indicati, semplificando la gamma dei contratti collettivi nazionali, in modo da rafforzare le coperture contrattuali e le tutele minime per tutte le tipologie di lavoratori, privilegiando la contrattazione aziendale e territoriale per gli aumenti salariali collegati alla produttività, potenziando le attività degli enti bilaterali per la formazione e i fondi di solidarietà per la finalità di promuovere gli interventi rivolti a favorire le transizioni lavorative.
Alcune di queste scelte vengono già concretamente praticate nelle relazioni sindacali aziendali e settoriali, ma non rappresentano ancora le opzioni strategiche per le resistenze opposte da una parte rilevante delle Confederazioni sindacali e delle rappresentanze dei datori di lavoro ad accettare un’evoluzione partecipativa delle relazioni industriali e il ruolo primario della contrattazione collettiva nella regolazione dei rapporti di lavoro. I costi delle mancate scelte delle parti sociali possono essere rilevanti e si associano alle oggettive difficoltà nel rappresentare una parte significativa del mondo del lavoro.
L’esperienza dimostra che queste lacune comportano un parallelo aumento delle rivendicazioni di interventi statali per rimediare le vere, o presunte, criticità dei rapporti di lavoro e nel mercato del lavoro, nell’ambito di una competizione aperta con i partiti politici. Un’evoluzione destinata a politicizzare il ruolo e le iniziative delle rappresentanze sindacali.
È esattamente quanto avvenuto sulla riforma dell’Irpef. A differenza di quanto afferma il Segretario della Cgil Landini, lo sciopero generale non ha sottratto consensi ai partiti populisti, ha semplicemente esaltato le pulsioni massimaliste presenti nell’organizzazione che rappresenta, e indebolito il ruolo delle rappresentanze sociali.
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