La vicenda del blocco dei licenziamenti, del quale non vi è stata proroga, ha un aspetto meramente economico – di cui si è parlato abbondantemente – e uno più politico che è sfuggito anche agli osservatori più attenti.
Per quanto riguarda il primo, ci limitiamo qui a dire che prima o poi il blocco dei licenziamenti andava allentato: non si può continuare in eterno con un mercato del lavoro congelato, questo ha bisogno di mobilità. E vi sono strumenti a sostegno dei flussi occupazionali che funzionano, ordinari e straordinari, soprattutto per il lavoro subordinato. Inoltre, è vero che vi sono settori in grandi difficoltà (servizi di alloggio, ristorazione, raffinazione, tessile, pellami, abbigliamento, intrattenimento, ecc.), ma si consideri anche che la manifattura – cuore del nostro tessuto produttivo che, insieme ai servizi agganciati, incide fino al 60% sul nostro Pil – si è dimostrata piuttosto resiliente. La produzione industriale, infatti, presenta ormai da un anno indici di tenuta e di crescita, al di là del rallentamento che in un primo momento ha riguardato tutto il mondo. Più che una misura azzardata, quindi, la scelta del Governo pare un riavvicinamento a una situazione ordinaria.
Venendo all’aspetto politico, l’esecutivo era infatti avviato a non prorogare il blocco, tanto che lo stesso ministro Orlando, responsabile del caso che si è creato, respinge l’accusa della mossa a sorpresa, ma conferma di aver inviato il testo della contestata norma agli uffici legislativi dei partiti di maggioranza due giorni prima del fatidico Consiglio dei ministri.
Ora: perché questo blitz di Orlando? Non si tratta naturalmente di un pasticcio, così lo hanno definito molti giornali, ma della volontà di creare un caso con l’obiettivo di dividere Governo e Parti sociali. In buona sostanza, il Pd a guida Letta sta cercando di ridarsi un’identità – si pensi a ius soli, tasse di successione, ddl Zan, voto ai sedicenni e dote giovani – e di ristabilire un legame con mondo del lavoro e sindacati.
Non solo, il Pd punta a isolare la Confindustria e ne ha buon gioco: gli industriali, infatti, non sono stati in grado – negli ultimi due anni – di stabilire un rapporto forte con Cgil, Cisl e Uil, importante per sopperire alle mancanze del Governo Conte e per far fronte all’emergenza in modo autorevole, nonostante i rinnovi contrattuali delle categorie, in particolare metalmeccanici e chimici, che solitamente generano quelle condizioni d’intesa utili a livello interconfederale.
Letta rivuole la “cinghia di trasmissione”: così era chiamata la Cgil e il suo rapporto con il Pd fino alla gestione Bersani, legame poi saltato durante la segreteria di Renzi. Può funzionare questa strategia? Il più importante partito della sinistra si può permettere di rinunciare alle istanze del mondo produttivo e dell’innovazione?
Ne dubitiamo alquanto. E ne dubitano, anche, molti amministratori locali del Pd che guidano alcuni importanti territori (si pensi, ad esempio, a Bonaccini e Gori). In primis, sono molti i lavoratori e gli iscritti al sindacato a credere proprio nell’innovazione d’impresa. Basta frequentare congressi e organismi statutari delle federazioni di categoria per capire come lavoratori e delegati sindacali, tra le loro priorità, abbiano non solo il salario ma anche la formazione, i temi dell’industria 4.0, del futuro del lavoro e dell’innovazione tecnologica. Sono priorità che faticano ad arrivare al vertice del sindacato, nelle confederazioni: sono questi, infatti, gli organismi meno vicini ai luoghi di lavoro e alle persone in carne e ossa.
La rappresentanza del lavoro è molto cambiata negli ultimi 10 anni, non a caso l’ultimo grande accordo tra Confindustria e sindacati resta ancora quello del 2009 (non condiviso dalla Cgil che si è poi riallineata con le intese 2011 e 2013 in particolare). Poi gli effetti della crisi (2011) e la deflazione (2014) hanno stravolto i rapporti di forza: oggi sono le federazioni di categoria a dettare la linea – il caso Bentivogli ha questa origine – e, come si diceva prima, i lavoratori in carne e ossa vogliono imprese che abbiano un futuro. Non sono più interessati alle indicazioni di voto. Da questo punto di vista, il sindacato non è più un grande apparato. Proprio al tempo delle elezioni politiche del 2018, Susanna Camusso – all’epoca Segretaria generale della Cgil – non diede alcuna istruzione, tanto che il 20% degli iscritti votò la Lega (sondaggio Cgil). Pare difficile che lo possa fare Maurizio Landini, anche perché pensiamo che non creda molto nel Pd di Letta e che abbia un atteggiamento molto laico nei confronti della politica. Si ricordi, ad esempio, quando Matteo Salvini convocò le Parti sociali al ministero dell’Interno (cosa che fece infuriare Conte). Proprio in quella sede, per quanto anomala, Landini disse così: “Le istituzioni chiamano e noi rispondiamo, al di là del colore politico”.
Quel legame tra Pd e la cinghia di trasmissione – che in parte conduce anche agli altri sindacati – difficilmente sarà ristabilito. E la mancata proroga del blocco dei licenziamenti non avrà effetti collaterali: sta per iniziare una fase di investimenti straordinari che non solo ha bisogno di mobilità ma che creerà nuovi posti di lavoro. Certo, sono processi complicati. Ma è ora che anche il nostro Paese impari a gestirli.
Twitter: @sabella_thinkin
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