Stavolta non ce la sentiamo di ironizzare: la guerra è una cosa seria. La morte è una cosa seria. La morte degli innocenti è la domanda delle domande, quella nella cui risposta si cela, e si svela, il Mistero. Ma appunto quale risposta? Non possiamo perdere, tra tante parole e immagini che inondano il nostro immaginario, la Parola che tutto spiega e giustifica. Non possiamo né lo vogliamo. Per grazia ci è stato dato di sapere dove andare ad ascoltarla.
Per questo ci ha colpito, e non precisamente in positivo, leggere mercoledì un articolo nel quale la Cisl per bocca del suo Segretario generale, Luigi Sbarra, invocava il ritorno alla concertazione e alla contrattazione come percorso per uscire dalla crisi. Questa che attraversiamo però non è una crisi umanitaria, è uno scossone al mondo così come lo abbiamo immaginato, pensato e, in parte, costruito.
Due anni fa, all’apparire del Covid, gridammo tutti che “nulla sarebbe stato più come prima”, che “non ci saremmo mai dimenticati di quanto abbiamo vissuto”. Era 24 mesi fa, poco meno poco più, eppure quelle furono parole al vento. La realtà invece no, quella è testarda, è dura, è una carogna se mi è permesso l’uso predicativo di un’immagine troppo attuale per non essere drammatica. Mica pensa di cambiare perché a noi fa comodo, perché noi siamo o gli adepti dell’antilingua o i compulsivi bevitori delle acque del Leté. Non solo non ci ricordiamo di quanto avvenuto e detto, ma ci rifugiamo in un passato ricostruito ad usum del nostro presente e delle sue esigenze immediate.
Nulla di nuovo, sia chiaro, ma ciò non toglie che neppure un lembo della retorica dovrebbe coprire con la sua ombra i drammi umani. Non sappiamo se buttare in vuote parole la concretezza dei problemi antropici sia un peccato o una colpa laica, per fortuna non tocca a noi deciderlo: sappiamo però che da cittadini semplici quali siamo non possiamo che restare colpiti dalla proposta, torniamo al punto di partenza, di uscire dalla attuale situazione tramite la concertazione. Possiamo aver capito male, ma se il riferimento è alla politica di concertazione inventata da quel genio sindacale che fu Sergio D’Antoni e perfezionata dal suo erede Raffaele Bonanni, allora per quell’amore che ci guida verso il sindacato e il sindacalismo non possiamo che dirci basiti. Non contestiamo né il metodo, né la liceità di proporlo. Contestiamo, sommessamente ma neppure troppo, che un metodo pensato per un mondo fa, anzi per due ere geologiche fa, possa essere evocato per il domani. Ma contestiamo soprattutto che alla crisi del sindacato, crisi di rappresentanza e di forza contrattuale, si pensi di poter rispondere attraverso uno strumento nobile e glorioso, ma anche antico se non proprio obsoleto.
In un mondo che cambia colpisce che il sindacato, e tra tutti quello che per storia e genetica è il più riformista di tutti, guardi quasi impaurito al nuovo e opponga alla valanga del futuro le parole d’ordine del tra(passato). Possibile davvero che nulla sia pensabile che non sia anche già stato sperimentato? Non osiamo credere, sempre per quell’amore al sindacalismo che ci sostiene, che l’elaborazione teorica e metodologica si sia fermata a trent’anni or sono. Ma soprattutto non vogliamo pensare che si ritenga ancora che la concertazione possa alleviare le difficoltà in cui si dibatte la contrattazione.
La forza del sindacato è la convinzione di quanti lo sostengono: la domanda da farsi dunque, quella da cui partire, è come non disperdere il tesoro di credibilità, di forza, di rappresentatività, morale e sociale prima che politica, che deve legare la struttura sindacale alla sua gente. E saper trasformare questo tesoro in atti e forza contrattuale: il che significa saper assorbire l’energia che promana dal popolo dei lavoratori. Ma dal popolo tutto, non da una piccola parte dello stesso: siamo davvero sicuri, per fare un esempio, che una riforma del rinnovo automatico del tesseramento sia un male? Non potrebbe invece rappresentare un ritorno a un rapporto vero con la propria gente e con i suoi bisogni e il suo sentire?
Anche nella Chiesa, in fondo, c’è chi pensa che abbandonare certi riti e slegarsi dai beni terreni rappresenterebbero una sciagura e un vulnus alla tradizione, una catastrofe. Ma la Storia è lì a dimostrare che la Chiesa è tanto più libera, umana, profetica, cioè adeguata al mondo attuale, quanto più si libera di certi pesi. D’altronde, si licet parva componere, lo Spirito soffia per cambiare le cose non per congelarle.
Il futuro del sindacato, come lo immaginiamo noi, si nasconde nel coraggio del riformismo, nell’eroismo del cambiamento e dell’abbandono, a cominciare da sé stessi e dalle proprie “coperte di Linus”.
Potremmo sbagliarci, potremmo avere torto, potremmo essere inguaribili sognatori, ma di sicuro sappiamo che la coazione a reiterare il passato è una via tanto comoda nell’immediato quanto dannosa in prospettiva. Vale per tutti certo, ma, nello specifico, vale soprattutto per il sindacato più riformista che ci sia. Perché il cambiamento è il suo DNA e perderlo significherebbe perdere sé stessi e la propria ragion d’essere. Chiudersi davanti al nuovo che avanza corrisponde a imitare quel riccio che, sorpreso da un camion mentre attraverso la strada, e confidando sulla propria corazza di spine, pensa che per difendersi dalle ruote dell’autotreno basti appallottolarsi. Come finisce la storia ce lo insegna l’esperienza.
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