Salvo improbabili sorprese, dopo l’approvazione in commissione Lavoro della Camera dell’emendamento della maggioranza sul pdl delle opposizioni (esclusa IV), il salario orario minimo (di 9 euro) è pregato di ripassare. In Aula andrà la delega a prima firma Rizzetto, da esercitare entro 6 mesi, che definisce come condizione minima da riconoscere (ai sensi dell’articolo 36 della Costituzione) ai lavoratori di ciascuna categoria il trattamento economico complessivo minimo del contratto maggiormente applicato sia, ai sensi dell’articolo 36 della Costituzione, la condizione economica minima da riconoscersi ai lavoratori nella stessa.



In un precedente articolo su Il Sussidiario ho avuto modo di indicare le possibili criticità di questa soluzione. Avremo comunque la possibilità di verificare nel medesimo arco temporale che l’AC 1275 aveva contrassegnato (24 novembre 2024) per adeguare i contratti vigenti al minimo di 9 euro. Tutto sommato, però, un progetto di legge, concepito “un po’ per celia e un po’ per non morir” dalle opposizioni unite dopo la sconfitta nelle elezioni in Molise ha promosso un dibattito molto ampio che ha consentito di fare chiarezza e sfatare troppi luoghi comuni.



Innanzitutto – grazie anche al contributo di un rinato e rinvigorito Cnel – è stata compiuta un’ampia ricognizione della copertura contrattuale effettiva in un Paese che vanta percentuali bulgare. Addirittura, vi sono istituzioni internazionali che attribuiscono all’Italia una copertura della contrattazione collettiva pari al 100%, per effetto di una giurisprudenza consolidata che attribuisce ai minimi retributivi previsti nei contratti stipulati dalle organizzazioni più rappresentative il carattere di retribuzione proporzionata e sufficiente di cui all’articolo 36 Cost. In tale contesto al 97% dei lavoratori dipendenti si applicano i contratti sottoscritti dalle confederazioni storiche, al residuo 3% contratti che non sono automaticamente definibili con l’epiteto di “pirata”, essendo questa condizione di dumping sociale riferibile allo 0,3-0,4% dei lavoratori.



In un recente articolo su Adapt Michele Tiraboschi, oggi autorevole componente del Consiglio dell’economia e del lavoro, ha fatto riferimento alla situazione di un settore importante come quello metalmeccanico: per questo settore i contratti depositati presso l’archivio nazionale dei contratti e degli accordi collettivi del Cnel sono in effetti ben 48. Eppure, nonostante questa apparente proliferazione, non si può dire che il dumping selvaggio sia la regola, anzi. Analizzando i dati Cnel-Inps (provenienti dal c.d. flusso Uniemens), infatti, si scopre che, su oltre due milioni e mezzo di lavoratori impiegati nel settore metalmeccanico, ben 40 Ccnl non sono applicati neanche a mille lavoratori. Ma non solo: a proposito dell’identità dei firmatari, i cinque contratti collettivi più applicati, che coprono, da soli, il 99,51% dei lavoratori del settore (parliamo dei CcnlFedermeccanica, che copre il 62,35% dei lavoratori del settore; Ccnl Meccanica artigiana; Ccnl Unionmeccanica; Ccnl Confimi meccanica; Ccnl Meccanica cooperativa) sono quelli sottoscritti congiuntamente da Fiom-Cgil, Fim-Cisl e Uilm-Uil (con la sola eccezione del Ccnl Confimi meccanica, stipulato dalle sole Fim-Cisl e Uilm-Uil, che comunque non possono essere considerate organizzazioni pirata).

Persino nel settore terziario, distribuzione e servizi, sul (consistente) totale di 96 Ccnl depositati presso il Cnel, soltanto 16 contratti trovano applicazione per più di mille lavoratori. Inoltre, dei quasi tre milioni di lavoratori (2.828.475) l’83,20% è coperto dal Ccnl stipulato da Confcommercio e Filcams-Cgil, Fisascat-Cisl e Uiltucs-Uil, di gran lunga il contratto collettivo più applicato, con un ulteriore 11,80% dei lavoratori comunque garantito da uno degli altri tre contratti nazionali di categoria stipulato da federazioni sindacali afferenti a Cgil, Cisl e Uil. Eppure – come ha evidenziato il Cnel, il 56% dei contratti (per 7,7 milioni di lavoratori) risulta scaduto, magari anche da anni.

E a quanto corrisponde il salario orario di questi lavoratori “coperti in grande maggioranza” da Cgil, Cisl e Uil? Emiliano Mandrone, in un articolo su Menabo (Etica Economia), compie l’ennesimo calcolo tra quelli circolati in questi ultimi mesi a fronte del fatidico numero della cabala (9 euro) della sinistra politica e sindacale. Il 18% dei lavoratori guadagna meno di 8 euro lordi all’ora. Il 6% tra 8 e 9 euro lordi l’ora. Dunque, il 24% degli occupati (circa 5 milioni) beneficerebbe di un salario inferiore a 9 euro l’ora.  Ma se si considerano solo i lavoratori dipendenti full time, il 13% ha una retribuzione oraria inferiore ai 7 euro e il 10% ha un salario netto tra i 7 e gli 8 euro l’ora. In questo caso i lavoratori subordinati a tempo pieno che potrebbero beneficiare di un salario minimo a 8 euro l’ora netti sono il 23%, circa 3,3 milioni di persone, platea che cala a 1,8 milioni con la soglia a 7 euro l’ora netti.

Da questi dati emerge ancora una volta che la questione cruciale è proprio la crisi della contrattazione collettiva: una crisi che scoppia all’interno del mondo sindacale tradizionale giacché sono tuttora le tre confederazioni storiche le protagoniste pressoché esclusive delle relazioni industriali. Eppure, da anni, la linea di condotta in particolare di Cgil e Uil rivendica una redistribuzione dei redditi attraverso le politiche pubbliche (riduzioni fiscali e contributive, trasferimenti monetari, ammortizzatori sociali, reddito di cittadinanza, salario minimo, ecc.).

Si prenda il caso dei c.d. extraprofitti. Che cosa dovrebbe fare un sindacato quando ha a che fare con aziende che – per varie circostanze – hanno incrementato i loro profitti? Rivendicare miglioramenti economici e normativi per i dipendenti avvalendosi degli appuntamenti contrattuali. È ciò che hanno fatto le federazioni dei lavoratori del credito (in prima linea la Fisac-Cgil), ottenendo nel rinnovo del contratto nazionale una riduzione di mezz’ora a parità di salario dell’orario di lavoro (a 37 ore) e un aumento medio a regime di 435 euro mensili di cui 250 euro dovrebbero arrivare  già a dicembre. Sempre in dicembre ci saranno ulteriori 250 euro di aumento con la tredicesima e gli arretrati da luglio 2023  per un totale medio in busta paga di 1750 euro. La Cgil e la Uil, invece, hanno scioperato per ottenere dal Governo una tassazione pari almeno al 50% dell’importo totale, da applicare, nell’anno in corso, alla base imponibile costituita dall’extra profitto maturato dalle imprese – sono parole di Landini, “che stanno macinando risultati record”.

I padroni sono defilati, vengono praticamente ignorati nei comizi, quando invece, nella dialettica fisiologica delle relazioni industriali, sarebbe normale per un sindacato avvalersi dell’occasione di extraprofitti per rivendicare extra-aumenti di retribuzione. Tocca invece allo Stato “tosare la pecora” e distribuire “con altri mezzi” le risorse prelevate dal capitale al lavoro. È questo il mestiere del sindacato?

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI