Ogni crisi è un’opportunità. Dentro ogni cambiamento, questo significa etimologicamente la parola crisi, cioè ci sono spazi per novità, per disegnare diversamente da come ce lo saremmo atteso, immaginato, quel futuro cui si guarda alternando sprazzi di paura e percezioni di speranza.

Il Covid ha colpito duro tanti singoli e tante famiglie. Moltissimi sono deceduti e sembra che abbia soccombuto soprattutto chi era affetto da una pluralità di patologie. Diciamo sembra perché perfino la scienza, in questo caso l’epidemiologia, in Italia è divenuta terreno per confronti degni di una puntata di “Amici” più che della prestigiosa (si dice così) rivista scientifica Science. Talché ogni speranza de noantri poracci di capirci qualcosa è affogata nel mare magnum delle urla e degli interessi politici di parte.



Allo stesso modo ne è stato delle aziende: per ora moltissime sono attaccate ai respiratori artificiali dei più o meno efficienti e sufficienti interventi statali. Ma già si sa che non sopravviveranno alla fine dei “trattamenti ospedalieri”.

E allora cosa fare? Beh, il viceministro Castelli ha proposto agli imprenditori di cambiare mestiere. Appunto: come fossimo da “Amici”! Qualcun altro, più serio, ha ripreso in mano i fondamentali dell’economia e ha pensato che, in questo momento, interesse dei cittadini italiani sia quello di non perdere le aziende e quindi, al netto di ogni posizione ideologica, forse si poteva anche prendere in considerazione l’idea di un intervento pubblico nelle imprese che dovessero avere accesso ai finanziamenti pubblici.



Si va verso un processo di nazionalizzazione? Mah. Come sempre basta buttarla in ideologia per scivolare nella politica politicata e poi mandare tutto a bovini da latte. L’importante sembrerebbe di non discutere e non essere costretti a fare le cose seriamente.

Meglio un ragionamento alla Tex Willer, o se preferite alla Walker Texas Ranger: io buono, tu cattivo. Che Dio ci scampi dai congiuntivi, dalle subordinate, da un pensiero non dicesi complesso, ma anche solo articolato. Roba da intellettuali e oggi vanno di moda i bar mica i bistrot parigini.

E allora torniamo al tavolo: cosa fare con le imprese, diciamo Fiat, anzi Stellantis (ma chi l’ha scelto? A noi pare di una bruttezza rara, talmente rara che il suo papà non può che essere stato l’ideatore della Multipla o il progettista della Duna!), che si sono prese una quota consistente di aiuti? Oh, intendiamoci: aiutarle era indispensabile e per fortuna nessuno Stato, neppure il più liberista, si è rifiutato di intervenire. Ma appunto: a situazione estrema, estreme decisioni. Ciò comunque vale sia nel dare sia nell’avere. E dunque bene ha fatto Annamaria Furlan a lanciare la proposta, che sta nel DNA della Cisl fin dalla sua fondazione, di una presenza dei sindacati, e pertanto dei lavoratori dipendenti, negli organismi direttivi e quindi di una loro partecipazione alle sorti aziendali.



Certo, si tratterebbe di una stagione del tutto nuova, in gran parte da esplorare e da costruire, ma forse finalmente usciremmo dall’eterno italico dilemma tra le aziende che chiedono soldi, ma poi sui rendiconti di quanto fatto denunciano seri problemi di scrittura, e chi pensa che comunque i padroni sono il nemico e che quindi essi vanno isolati, massacrati (politicamente of course). Almeno proviamoci con quelle imprese che beneficeranno dei sostegni più consistenti. Una proposta che non contrasterebbe né con la prassi europea, né con una seria disciplina in materia di investimenti e di governance delle imprese.

Certo, ripetiamo, si tratta di una stagione da costruire, ma essa metterebbe definitivamente, si spera, in soffitta ogni tentativo di far finta di essere moderni ma ragionare come 100 anni fa.

La prime reazioni non sono state né entusiastiche, né incoraggianti, ma non ci aspettavamo altro. Perché si pensa per astratto su modelli (nel caso di specie sul cosiddetto modello liberista e su quello statalista, con le tifoserie schierate con l’uno o con l’altro). Noi vorremmo vedere un sistema come quello tedesco di co-regolazione dove ognuno nel rispetto dei ruoli e delle parti, sindacati e imprenditori, ma anche banche e istanze territoriali, siedono nei boarding assumendosi impegni precisi e condividendo oneri e onori.

Saremmo ben lontani da quella campagna di statalizzazione che ha fatto sì che qualcuno lodasse la gestione di Autostrade di Anas (ma ce la siamo scordata la Salerno-Reggio Calabria? O in quali condizioni versavano queste arterie fondamentali per l’economia e la vita italiana? Certo i Benetton ne hanno fatte di ogni colore, ma non è che quelli di prima brillassero per efficienza e contenimento dei costi!). Partecipazione significa intervenire per scegliere cos’è il meglio per le imprese, assumendosi responsabilità e fatiche, ma anche introducendo elementi di democrazia economica laddove oggi si fa fatica a uscire dal manicheismo ottocentesco.

Allargare le governance aziendali a tutti gli stakeholders non diluisce né la proprietà, né il capitale, ma modifica strutturalmente i processi di difesa e affermazione del lavoro.

Sarebbe anche il viatico a processi, più complessi, ma non meno necessari, di governance territoriale: o qualcuno pensa ancora di poter usare i fondi, pochi o tanti che siano, europei in arrivo per finanziare provvedimenti analoghi a quei buchi neri profondamente ingiusti e incredibilmente costosi, che sono stati il Reddito di cittadinanza o Quota 100? Serviranno invece progetti concreti e visioni non ottenebrate per sfruttare l’occasione. Lo dobbiamo, se non altro e senza retorica, alle migliaia di morti per Covid le cui lacrime lastricano le strade che stiamo cercando di percorrere.

E poi: se perfino Cgil e Cisl ormai sembrano parlare sul tema della partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese, una lingua simile, come accettare che a intralciarne il successo debbano essere istanze politiche di cui il meno che si possa dire è che hanno una conoscenza del lavoro e delle imprese non più che “relativa”?

Proviamoci e a quel punto nessun alibi basterà più: saremo forse un po’ più moderni e un po’ più europei. E magari anche un po’ meno poveri e un po’ meno disoccupati. E che qualcuno traduca il concetto ai diversi Tex Willer che popolano la scena pubblica italica senza aver, dell’eroe con la pistola, né il fascino, né la sveltezza.

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