Mah. E sia chiaro che maheggiamo mica per relativismo, ma perché da troppe settimane tante cose ci perplimono.
Prendiamo ad esempio l’attuale situazione economica: l’inflazione corre allegramente intorno al 10%, gli aumenti del costo dei beni anche di prima necessità da transitori che erano sono divenuti temporaneamente definitivi. L’altro giorno notavamo che ormai acquistare un’auto nuova è più caro che comperare una casa: sarà perché, ci siamo chiesti, ci stiamo trasformando in un Paese di nomadi? Poi abbiamo postulato che il Covid ci abbia convinti a vivere nella natura e in fondo cosa di meglio che osservare il bosco di notte dai finestrini di un’auto nella quale possiamo mangiare, dormire, telefonare e twittare compulsivamente?
Ma chi ci ha davvero aperto gli occhi sono stati gli studenti universitari che anche loro ormai si stanno orientando a vivere nelle tendine canadesi. E il perché lo spieghiamo noi a Valditara! Altro che centrosinistra o centrodestra: i giovani universitari vivono in macchine invece che in case perché lì in due si sta altrettanto stretti che con otto coinquilini nei monolocali, ma almeno l’intimità è un po’ più assicurata. E a una certa età, beati loro, l’intimità resta ancora un valore da difendere e far fruttificare! Constatato poi che l’emigrazione da emergenza nazionale con tanto di pericolo per l’italica razza è stata relegata a banale scusa per litigare con Parigi, abbiamo compreso che in questo Paese stava davvero tutto andando a signorine di facili costumi quando abbiamo sentito che Cgil, Cisl e Uil si sono accordate per una serie di manifestazioni di protesta in vista (ma magari no) di una protesta più forte (ma quasi quasi non troppissimo forte, vedi mai la legge sui Rave-party) e forse perfino financo di uno sciopero generale.
Ora non siamo certamente noi quelli che sospirano guardando Oltremanica ove gli iscritti stanno votando sull’ipotesi di accordo che i sindacati degli infermieri hanno sottoscritto dopo molti scioperi, con aumenti del 5% e una consistente una tantum o di quelli che sbirciano al di là del Reno, in Germania, ove gli scioperi di avvertimento hanno bloccato i trasporti e nel pubblico impiego sono state rotte le trattative per sostenere la richiesta sindacale di aumenti del 10% perché l’inflazione è al 10%. Sulle rive del Meno i bizantinismi non sono banditi, ma vale anzitutto il principio della logica: l’offerta dell’aumento dell’8% più una tantum è stata respinta perché insufficiente. Lasciamo stare poi la Francia dove la questione delle pensioni serve per regolare conti politici e la posta in gioco, più che sindacale, riguarda De Gaulle e una forma di governo con figure istituzionali forti e basi di consenso sociale ondivago.
Ordunque dopo che questo lungo periplare ci ha condotti a noi (e sia consentito dirlo senza allusioni venticinqueaprilesche), cosa si dice dell’Italia? Beh, anzitutto che i problemi da noi non sono mica diversi da quelli degli altri, siano questi altri la “perfida Albione” o la “molle Marianna” (e qui le allusioni sono volute).
L’inflazione tra Lodi e Canicattì è alta come in Germania o in Inghilterra e sulle pensioni ci sono più domande aperte che risposte all’orizzonte. Ma da noi non succede niente di niente. Oh: niente vuol dire niente, a meno di credere che la distribuzione sindacale di volantini nei mercatini e qualche piazza semi riempita di pensionati e funzionari possa essere una risposta ai problemi della gente. Semplicemente ci sembra che l’Italia sia fuori dall’Europa sindacale dove si è aperta una stagione di conflitti di lavoro. E per questo maheggiamo: perché ci sembra che questo panorama comporti almeno due ordini di riflessioni.
Il primo è che in fondo l’Italia è fuori perché secondo la nostra natura ontologica preferiamo come di consueto parlare d’altro, magari di architetture istituzionali: a proposito, scommettiamo che la stagione delle riforme istituzionali partorirà al massimo un certo numero di “bellissimi” dibattiti televisivi con tanto di pareri sbraitati da qualche semisconosciuto personaggio o dai consueti giornalisti-curvaioli? In fondo siamo pur sempre una Repubblica fondata sulla retorica.
Il secondo ordine di risposte è quello da dove origina il nostro maheggio, e cioè dalla non-risposta che le organizzazione sindacali stanno imbastendo davanti all’attuale sconsolante quadro economico. La Cisl per ora mobilita davvero le sue strutture soprattutto per sostenere la legge sulla partecipazione. La Cgil da parte sua è concentrata innanzitutto sulla occupazione de facto del Pd e delle sue strutture: mica per caso Landini e Schlein concordano su ogni dettaglio. Finanche sull’abolizione del Jobs Act. E anche se continuiamo a chiederci come diavolo faccia la Schlein a discutere di Jobs potendo vantare come sua maxima attività produttiva quella di aver visitato qualche luogo di lavoro (e per la verità, e per parità, mica diversamente si può dire della Giorgia nazionale), non smettiamo di pensare che aver rimesso insieme l’antica catena di trasmissione di togliattiana memoria costituisca più un’offesa all’intuito politico dell’allora segretario piccino (cioè del Pci) che la correzione di un errore e uno sguardo al futuro prossimo venturo. La Uil, infine e come si diceva una volta, è l’eterno stato d’animo che in questa fase cerca uno spazio a sinistra dopo averlo trovato a destra.
Ma allora? Allora noi maheggiamo sempre più. Perché i problemi ci sono, il Governo sembra in seria difficoltà nell’affrontare i drammi quotidiani della gente, i piani relativi al Pnrr hanno la stessa puntualità dei Frecciarossa, i salari sono in netto calo di valore e potere, il ceto medio ormai merita una norma ad hoc (proponiamo come modello la legge cinese per la difesa dei Panda), ma i sindacati non hanno trovato forme diverse da quelle del passato per intestarsi una presenza che vorrebbe essere una lotta, ma forse invece sarà una trattativa o però magari potrebbe anche rivelarsi qualcos’altro di non ancora ben chiarito. Gli è che si tratta soprattutto di una somma di operazioni di corto respiro, di combinazioni fragili come il cristallo e se proprio volete di tattiche atte a lasciare a ognuna delle parti (Governo, industriali, sindacati) il tempo di occuparsi di quel che gli importa davvero. Ma con la tattica ci sopravvivi, magari ci vinci finanche le elezioni, ma quanto a governare (o fare la tua parte come rappresentanza di un corpo sociale), beh lì scusate ma noi siamo perennemente scossi da sussulti ondulatori di maheggiamenti.
Qual è l’idea comune ai tre sindacati maggiori sul futuro delle relazioni industriali, sugli equilibri tra imprenditori e dipendenti nelle aziende, sulla ripartizione degli utili, sulla partecipazione nella governance di grandi gruppi e quindi sulla responsabilità di scelte magari anche impopolari? Si sta forse (e sarebbe tanto bello) a nostra insaputa lavorando a una ricetta per combattere l’inflazione senza ricadere nella scala mobile (ma vedrete che fra un attimo anche questa tornerà di moda con tanto di discussione sul referendum, sul Cinghialone che lo sostenne, sulla Cisl che si piegò e via LaSetteggiando)? Ovvero. Prendiamo la non-posizione comune davanti alla bislacca recente riforma di un cardine del welfare: tutti a concentrarsi su affermazioni generiche e generali quando non puramente ideologiche, ma perché relegare nelle retrovie, ben coperto e allineato come si diceva nelle caserme, il vero tema che è quello di come fare a creare lavoro a Enna o Caltanisetta o di come formare a Milano i lavoratori a bassa professionalità onde toglierli dalla condizione di “vinti” verghiani? Sembra insomma che anche stavolta abbia avuto ragione la posizione così comoda (così cigiellina ma anche, in questa fase almeno, uillina) di chi preferisce andare per tribunali sperando di trovare qualche giudice compiacente che riformi contratti collettivi miserabili piuttosto che sporcarsi le mani lavorando alla riforma della formazione professionale, o per l’introduzione di quel sistema duale che altrove funziona e dà frutti o per sostenere percorsi di alta formazione post-diploma?
Non che si pretenda molto, ma già discettare della legge sul salario minimo o dell’estensione dei minimi contrattuali (ma notiamo comunque che in Francia e in Germania hanno sia il salario minimo che l’estensione dei contratti) ci parrebbe un passo avanti verso un terreno comune. Si badi: siamo pirla ma mica scemi e abbiamo capito che l’unità sindacale, checché se ne pensi (e noi non ne pensiamo proprio benissimo), è rimandata sine die, ma, dando per scontata la buona fede dei protagonisti, è troppo invocare uno straccio di linea comune concreta, un bischeraccio di programma su punti non diciamo decisivi ma almeno di qualche spessore?
Perché l’inflazione si muove come una Ferrari (da strada, mica quella da pista: magari fosse così!) rincorsa da salari che hanno i tempi di reazione della vecchia mitica Topolino e la italica pazienza per ora è ferma, ma essa ha scatti imprevedibili e una volta che è scesa per strada poi non distingue più tra amici, nemici e semplici conoscenti. Continuiamo a pensare che questa sia l’ora delle decisioni, delle innovazioni e del coraggio. Diremmo l’ora del riformismo e del dinamismo. A proposito: è pur vero una volta si insegnava che il conflitto industriale è il “principio dinamico di ogni sistema di relazioni”, ma allora si parlava di relazioni industriali mica della carriera politica di qualche singolo sindacalista (nevvero Landini?)…
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