Dopo la relazione annuale del Governatore della Banca d’Italia sono le previsioni Istat per l’economia nazionale per il 2023 e il 2024 a darci una base per leggere la realtà senza farci influenzare da lenti ideologiche.
Le previsioni per l’andamento del Pil sono quelle di un rallentamento rispetto al 2022, ma la crescita dell’1,2% e dell’1,1% per i prossimi due anni ci indica che il sentiero rimane positivo. A determinare questi risultati è la previsione della crescita soprattutto dei consumi interni dovuta alla diminuzione dell’impatto dei costi energetici e della conseguente dinamica negativa dei processi inflattivi sui redditi delle famiglie. Più contenuto è il contributo che verrà dalla domanda estera dove continua a prevalere, dato il continuo incremento dei tassi di interesse perseguito dalle principali economie, una contrazione della domanda di beni e servizi.
Come da più parti indicato, le previsioni indicano dati molto contenuti e la situazione internazionale, soprattutto per i possibili effetti di un allargamento del conflitto imposto dalla Russia in Ucraina, potrebbe invertire la tendenza aprendo una fase recessiva.
Con le previsioni a oggi disponibili, il mercato del lavoro avrebbe una crescita in linea con l’andamento del Pil. La crescita dell’occupazione sarebbe di poco superiore all’1% all’anno e la disoccupazione avrebbe un calo di qualche decimale. Prosegue, infatti, la copertura dei posti vacanti rilevati nelle aziende. Si attestano oggi al 2% con un calo trimestrale quasi costante dello 0,2% e cresce l’impegno degli occupati con una crescita delle ore lavorate. A sostegno della crescita dei consumi è la previsione che il 55% dei dipendenti in attesa di rinnovo contrattuale dovrebbe avere incrementi di salario per unità di lavoro del 3,5% quest’anno e del 2,7% nel 2024.
La fragilità delle ipotesi che reggono queste previsioni, fragilità insite nella crisi delle relazioni internazionali che caratterizzano questi anni, dovrebbero portare a concentrare le scelte di politica economica e industriale per potenziare e innovare il nostro sistema produttivo. Come indicato dal Governatore nella sua relazione, la sfida della produttività di sistema è il cuore dei problemi della crescita del nostro Paese. L’applicazione integrale delle scelte di riforma, oltre che l’attuazione degli investimenti indicati dal Pnrr, sono l’occasione storica per impostare un cambiamento che permetta una linea di crescita economica capace di affrontare il tema della redistribuzione del reddito a favore dei salari e insieme contenere l’espansione della spesa pubblica.
In questo quadro c’è molto da fare sul fronte del lavoro. Metter mano ai percorsi scolastici e della formazione professionale per affrontare il tema del mismatching di competenze e la disoccupazione giovanile. Potenziare il sistema di formazione continua per gli occupati e costruire un sistema di politiche attive del lavoro per aumentare la mobilità e la crescita delle occasioni occupazionali. Sostenere e promuovere la contrattazione di secondo livello per affrontare temi di validità dei minimi salariali, di tagli strutturali del cuneo fiscale, ma anche per favorire forme di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese aprendo una nuova fase dell’economia sociale e partecipata.
Sono solo spunti per richiamare la necessità che vengano affrontati in fretta temi strabici decisivi per la nuova fase di sviluppo dei lavori nei prossimi anni. Se vogliamo più lavoro e più lavori di qualità le riforme richieste riguardano i fondamentali dei sistemi di welfare legati al lavoro e che in Italia hanno sempre visto prevalere politiche passive per affrontare i cambiamenti invece di modelli di proattivazione delle persone.
Stupisce allora che di fronte alle indicazioni della Banca d’Italia e alle previsioni Istat la discussione aperta in Parlamento in commissione Lavoro e la posizione del principale sindacato italiano d’opposizione siano lontane dalla realtà.
Partendo dalle posizioni della Cgil, impressiona la mozione conclusiva dell’assemblea generale svoltasi nei giorni scorsi. Il documento è una piattaforma di rivendicazioni con scarsità di proposte. Tutti temi assolutamente validi. Salari, fisco, pensioni, precarietà ecc. sono certo da affrontare. Se però le ragioni che determinano le profonde ingiustizie per cui si programmano iniziative di mobilitazione sono da fare risalire a “pandemia, guerra, crisi energetica, speculazioni e…” diventa difficile prevedere che si possano trovare soluzioni entro le prossime generazioni. Non certo nei prossimi mesi.
È la riproposizione di un modello di sindacato conflittuale che deve sempre trovare ragioni talmente alte per motivare la propria azione che lo esime dall’avanzare proposte attuabili e quindi assumersi anche responsabilità conseguenti. Posizioni così rendono più difficile un’azione unitaria dei principali sindacati italiani e non fanno nemmeno un grande servizio per l’opposizione politica non producendo programmi credibili.
Altrettanto povero, però, il tavolo delle discussioni proposte dalla maggioranza in sede parlamentare. Si cerca di togliere la causalità dai contratti a termine, anche quella proposta nel decreto del primo maggio, si precisano norme sulla condizionalità per le offerte di lavoro per i fruitori del Reddito di cittadinanza occupabili, mentre si dovrebbe invertire la condizionalità per avere effetti realistici, e si ricamano interventi sul lavoro agile. Si propongono sostegni economici individuando categorie cui assegnare diritti di smart working, per dipendenti pubblici peraltro con regole diverse dai privati, come se fossero i legislatori a poter decidere.
La lontananza da quanto servirebbe fare per dare forza e sostegno alla fase di bassa crescita dei prossimi anni non potrebbe essere resa più evidente degli esempi fatti. Vi è inoltre un’incomprensione della domanda di partecipazione crescente che viene dal mondo del lavoro. Non tocca ai legislatori decidere chi e come può essere coinvolto in forme nuove di organizzazione del lavoro. Si sostenga la contrattazione decentrata che porta a certi risultati e si scoprirà che i modelli sussidiari daranno risultati migliori di un nuovo centralismo che invece si sta affermando.
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