“Postremo corporis et fortunae bonorum, ut initium, sic finis est, omniaque orta occidunt et aucta senescunt”. Sic Sallustio dixit e parlava della vecchiaia. In effetti tutto inizia e tutto finisce, tutto invecchia. Se non fosse che questo è il secolo più imbecille della storia umana, un secolo che pensa di aver inventato tutto e di avere il controllo di tutto e se non fosse che all’elogio del talento abbiamo sostituito il panegirico dell’istante e del mediocre, potremmo prendere quelle parole antiche e tutto sommato banalotte ancora come un detto da mandare a memoria. Ma poiché ormai non si deve insegnare più nulla a memoria (e si vedono le conseguenze), anche l’apoftegma sallustiano finirebbe in cantina tra gli straccivecchi.
Ecco: vecchi. Davanti alla notizia che i sindacati confederali (i soli con qualche eccezione ancora degni di portare l’antico – please note: non vecchio ma antico – nome) si sono ricompattati sul tema delle pensioni, cioè degli assegni mensili Inps che subiranno dei tagli o meglio, come dicono i giornali filogovernativi, subiranno degli adeguamenti di diversa entità, l’aggettivo che ci è scattato nella mente è “vecchi”. Non anziani (le persone) ma proprio “vecchi” (con riferimento ai meccanismi politici e sindacali). Non che il problema delle pensioni non esista: ma come andiamo dicendo, se gli italiani hanno voluto questo Governo in libere elezioni è giusto che bevano l’amaro calice fino in fondo. Sperando che dopo la croce ci sia la resurrezione, ovviamente.
Il problema dicevamo, c’è, esiste: i pensionati sono, elenchiamo secondo memoria, il centro delle famiglie; il sostegno dei figli in difficoltà, la stampella dello Stato Sociale perché vanno a scuola a portare e ritirare i nipoti, il bancomat della discendenza, i custodi delle memorie domestiche. Nonché i proprietari di una buona fetta dei titoli di Stato, cioè del debito collettivo, e tra loro è ancora significativa la percentuale di coloro che ancora si iscrivono ai sindacati.
Perché se le casse delle tre organizzazioni, al netto dell’impegno che ci mettono, della propaganda e delle varie novità, dovessero fare affidamento sulle iscrizioni dei giovani, be’, la crisi sarebbe anche più profonda di quel che oggi si vede. Secondo retorica, insomma, i nostri padri e madri sarebbero i depositari di (quasi) tutto ciò che c’è di bello e buono. In gran parte si tratta di retorica, come detto, pur se una fetta di verità si nasconde anche in queste frasi fatte. Il dato vero è che la nostra società (intendiamo, la società occidentale e specialmente europea) sta rapidamente invecchiando e, al netto degli appelli a far figli e delle elemosine con cui lo Stato sostiene le famiglie, la prima conseguenza di questa deriva è che aumenta il numero degli anziani e quindi aumenta il loro potere.
Nella società tutta, certo, e quindi anche in quelle libere associazioni che sono i sindacati. Il dato è noto: poco meno di due terzi degli iscritti ai sindacati sono ultrasessantenni pensionati. Il che non rende Cgil Cisl e Uil, come dicono i giornali filogovernativi, poco o per nulla rappresentative. Anzi. Le rende invece assai più deboli, perché non sempre gli interessi dei giovani sono compatibili con le esigenze degli anziani. Il punto della crisi sindacale, infatti, non sta nelle categorie degli “attivi”, cioè nelle federazioni rappresentative di coloro che lavorano, ma nelle confederazioni, cioè negli organismi il cui potere, e la cui rappresentatività, si fondano sul rapporto indiretto con la base. Le confederazioni, normalmente, e non a caso, controllano le rispettive federazioni dei pensionati: lì ci sono ancora fondi e soldi sufficienti a tamponare la crisi; lì ci sono i numeri decisivi per gestire i congressi. Lì ci sono ancora i volontari: quelli che tengono aperte le sedi periferiche e quelli pronti a saltare sui pullman per le manifestazioni romane e non solo.
Insomma, per ora il baricentro confederale sindacale è saldamente ancorato alle pensioni. E questo spiega un bel po’ di cose. Negli equilibri interni dei rispettivi gruppi di comando, ma anche negli approcci generali. Le reazioni politiche cui abbiamo assistito, la minaccia unitaria della protesta in piazza, i documenti sottoscritti da tutti e densi di una prosa che sembra il diretto riverbero di un’altra epoca storica, sono però riflessi condizionati: non andiamo affatto verso una nuova stagione di unità sindacale e la reazione unanime dimostra solo che il problema è identico per tutti. Senza dimenticare che buona parte dei gruppi dirigenti attuali delle federazioni pensionati di Cgil, Cisl e Uil si sono formati negli anni Settanta, quando il mito dell’unità sindacale era tanto forte da divenire un dogma, alla medesima stregua dell’Immacolata Concezione.
Logico quindi che ogni tanto scattino amarcord nostalgici. Forse fanno anche bene alla salute sindacale (e magari otterranno pure qualcosa), ma di certo è quanto meno bizzarro che in un momento in cui le linee politiche sindacali sono più divergenti di due rette che vanno in direzioni opposte, nel momento in cui uno indice un referendum per abrogare il Job Act (suggerimento non richiesto: mai pensato a un referendum per abrogare la siccità?) e l’altro raccoglie firme a sostegno della partecipazione dei lavoratori, in cui c’è chi parla anche col Governo e chi parla solo con una parte dell’opposizione (quella dura e, quasi, pura), ecco, in un momento in cui palesemente non si va d’accordo su nulla ed emergono nettissime invece le diversità che potremmo chiamare genetiche, il solo punto su cui ci si ritrovi siano i tagli delle pensioni.
Fossimo passatisti, nostalgici, un po’ retrò, se come La Russa vivessimo ancora negli anni Settanta, noi a questo Governo faremmo un monumento. Perché tagliando le pensioni è riuscito dove ben altre teste d’uovo hanno fallito. In fondo aveva ben ragione Nestore: “Resisterò tra i cavalieri e sarò la loro guida con il senno e con la parola: che è privilegio dei vecchi”. Poi magari potremmo discutere del senno, ma questa è un’altra storia.
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