Non si può sempre vincere ovviamente, ma scegliere sempre deliberatamente di perdere è un comportamento che attiene al mondo della psicanalisi o, se volete e siete minimamente colti, alle elucubrazioni fantasmatiche del barone von Masoch, al secolo Leopold Richter von Sacher-Masoch.
Così quando mi è capitato di trovarmi sul tavolo l’invito ad aderire alla giornata di sciopero generale nazionale indetta il 16 dicembre da Cgil e Uil per otto ore, più che immaginare che cosa avrebbero potuto dire, una volta che fossero saliti sul palco, il buon Maurizio Landini o l’umbratile Pierpaolo Bombardieri, ho subito pensato che l’uomo giusto al posto giusto per parlare lì di fronte alla oceanica (???) folla di lavoratori, lavoratrici, pensionati e pensionate (io mi fido ancora della Accademia della Crusca e della vecchia grammatica per cui non uso gli asterischi e dunque mi si scusi se debbo elencare, per non incorrere negli strali dei circoli politically correct, ogni sostantivo nelle due diverse forme di genere), dicevo, ho subito pensato che l’uomo giusto lì sul palco sarebbe stato il mitico Tafazzi. Ebbene sì, lo confesso: ho creduto che Maurizio e Pierpaolo avrebbero dovuto presentarsi in calzamaglia e paragioielli-di-famiglia d’ordinanza onde accompagnare il consueto (e vagamente insulso in questo caso) discorso al popolo con un ben più indicativo gesticolare.
Lo confesso: da sindacalista d’antan, e quindi aduso a decrittare una certa retorica traducendola nei termini della sua concretezza, è una settimana che mi interrogo su quella mossa. Immaginate una scacchiera, i due campioni mondiali che si affrontano, la tensione che sale, e uno dei due che all’improvviso fa una mossa che in una volta sola scopre il re, sacrifica la regina e consegna la torre al suo avversario. Tutti a chiedersi: acutissima e inattesa evoluzione di una variante di gioco particolare o frutto di una abbondante libagione notturna accompagnata da (cattivo) alcool a fiumi? Ecco io sono così sospeso: incerto se rimanere allibito davanti alla genialità incompresa (per difetto di cerebro dello scrivente, of course) o ripiegarmi sul mio dolore di essere umano attapirato per l’evoluzione darviniana subita dalla classe dirigente sindacale. E siccome il dilemma l’ho risolto optando per il secondo corno del problema, ho stabilito che non avrei fatto paragoni tra il nuovo duo e i Di Vittorio o i Viglianesi, o i Lama o i Benvenuto. Sarebbe stato troppo facile. Ho quindi provato a fare un raffronto, massì suvvia pronunciamone il nome, con Ottaviano del Turco: anche in questo caso però il simpatico binomio sindacal-populista che ha convocato le suddette folle oceaniche in una piazzetta romana per far sembrare il tutto bello pieno, non ne esce proprio benissimo.
Le colpe di Landini e Bombardieri d’altronde non sono poche né banali. Proviamo così a riassumerle per sommi capi: non aver fiutato l’aria che tirava nel Paese; non aver capito che il popolo di lavoratori e pensionati ha paura certo e vive anche un indubbio disagio ma che oggi si fida più delle indicazioni politiche draghiane che delle scombinate analisi sociologiche e dei filosofemi di intellettuali démodés (figuriamoci quindi dei leader sindacali); non aver abbandonato l’ormai lisa strategia del tira e molla; non aver intuito il cambio di stagione. Già, il cambio di stagione e l’entrata nel post-populismo: da questo punto di vista Maurizio e Pierpaolo ci sono sembrati politicamente assimilabili ai mitici cumpari Giggino ‘a purpetta e Ale ‘Dibba’ Di Battista mentre in macchina andavano in Francia a incontrare i gilet gialli. Lanciati a inseguire un fantasma credendo che esso sia invece dotato di un corpo di sana materia.
Intendiamoci. Il sindacato è un’associazione popolare che ha sempre avuto al suo interno una componente vagamente populista: ma essa stava manzonianamente ben nascosta (e neppure troppo per la verità), in tanti discorsi, in alcune scorciatoie dialettiche, perfino in certi programmi o in soluzioni alla buona di problemi complessi (come non ricordare l’invito a sperperare soldi che non ci sono in progetti bislacchi recuperandoli grazie a una “seria lotta all’evasione”?). Ma mai ci era capitato di assistere all’indizione di una manifestazione per manifestare (cacofonia voluta, ovviamente) questa vena populista proprio quando essa ormai non attrae più neppure i CinqueStellati e quando perfino “Giorgia-sono-una-donna” cerca di indossare l’abito buono del leader istituzionale (e lei ne ha, piaccia o meno, le-physique-du-rôle, intendiamoci). Perché farlo allora?
Un favore politico a Letta? Mah: perché ciò sia vero costui dovrebbe possedere (o almeno far intravvedere) una strategia, un piano, un progetto qualunque. E non ci sembra questo il caso. C’è l’idea di sostituire il sindacato all’ala populista del “campo largo” piddino? Può darsi, ma davvero qualcuno tra gli strateghi dello sciopero ha potuto credere che gli iscritti a Cgil e Uil si acconceranno nelle urne a sostenere l’ansimante e ormai agonizzante creatura grillina?
Non rimane allora che un’ultima soluzione: lo sciopero doveva mettere in difficoltà qualcuno. Draghi? Mah, difficile o se davvero era così, diciamo che il traguardo è stato mancato di qualche decina di chilometri. Mai visto un Premier più tranquillo di lui nei giorni successivi alla proclamazione dello sciopero generale. Il Piddì allora? Ecco questo potrebbe darsi, se non altro perché in piazza non c’era nessuno dei suoi leader. Ma nell’assemblea che governa quel partito non ci sembra che sia insorta alcuna voce a chiedere conto delle dette assenze. E ciò, nonostante la notevole componente di onanismo autodistruttivo di cui essa è storicamente dotata!
Rimane Confindustria. Ebbene sì: poteva essere lei il bersaglio. Anzi, era certo lei il bersaglio: l’avversario di sempre, che oggi è controparte dura. Ma se così fosse, se questo fosse stato davvero l’obiettivo, cioè mettere politicamente al muro “i padroni”, allora suggeriamo mestamente ai direttivi nazionali di Cgil e Uil di rivedere se non la propria strategia almeno i tempi di attuazione della stessa.
Di questo passo e con queste cifre di adesione allo sciopero, Confindustria rischia non solo di rafforzarsi ma pure di sembrare dotata di idee avanzate, di un sano pragmatismo e perfino di fiuto politico. Insomma: Maurizio e Pierpaolo avete fatto strike, in un colpo solo rianimando l’associazione datoriale; dimostrando che il Governo può proseguire saldo e tranquillo la sua navigazione; suggerendo che il sindacato ha scarso appeal e una quasi nulla incidenza sulla vita quotidiana della gente; e più e peggio facendo credere che tra i pensionati e i giovani vi rivolgete ai secondi per portar soldi ai primi. Di norma uno sciopero generale dovrebbe rafforzare il sindacato nella trattativa: qui esso ha rafforzato la controparte.
Ma quel che è fatto è fatto e vogliamo credere che sarà anche per questo che né Draghi, né alcun altro leader ha voluto infierire sul duo Landini-Bombardieri: leninisticamente hanno prima scelto di lasciare che una fetta di sindacato si procurasse la corda cui appendersi, e poi dopo che esso esercitasse la nobile e solipsistica arte dell’autolesionismo. E a quel punto Draghi ha potuto sembrare perfino buono, collaborativo e magnanimo: come si fa davanti a un cane in apparenza grosso e feroce, ma che è tanto ben sedato da risultare meno pericoloso di un grillo canterino.
Come sempre le fughe in avanti hanno prodotto cioè quelle che il Mascellone a suo tempo chiamava le “riorganizzazioni del fronte”, vulgo: ritirate precipitose con annesse figure di palta (specialiter quella russa), e perdite di guerre.
Vogliamo crederlo perché altrimenti il tranquillo, per non dire sonnolento, post-sciopero generale si spiegherebbe solo con l’assoluta irrilevanza del sindacato, ridotto a essere meno influente di una qualunque bocciofila di Roccalbuto di Sotto nella trattativa per la pace nel mondo, e con una generale indifferenza per il suo stesso esistere. E questo sì che ci spiacerebbe davvero!
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