Tra i tanti problemi che negli ultimi anni hanno messo in difficoltà le economie sviluppate, trova un posto di rilievo anche la disinvoltura – con un sottofondo ideologico – con cui le istituzioni internazionali e comunitarie hanno affrontato le questioni della transizione ecologica.
Il cambiamento climatico è riconosciuto come una delle più gravi crisi che il pianeta si trova ad affrontare oggi, con impatti non solo sull’ambiente, sulla biodiversità e sulle risorse naturali, ma anche, e in modo significativo, sulla società, sull’economia e quindi sui territori, le comunità e i settori economico-produttivi.
L’urgenza di affrontare questa sfida ha determinato numerosi accordi siglati a livello internazionale, europeo e nazionale, volti a ridurre progressivamente le emissioni di gas serra, contenere l’aumento delle temperature e promuovere iniziative a favore della lotta contro il cambiamento climatico.
Magari oggi sono in corso riflessioni più prudenti che inducono a evitare frettolosi automatismi e scadenze temporanee insostenibili se non a rischio di effetti negativi sull’economia.
Ciò porta ad attribuire alla contrattazione collettiva – quale sommo esercizio della pratica e aderenza massimo alla realtà – un ruolo decisivo nell’evitare di trasformare la transizione ecologica in un’operazione di vaste dimensioni di gettare il bambino insieme all’acqua sporca ovvero il benessere collettivo sull’altare del cambiamento climatico.
È stato pubblicato nei giorni scorsi un rapporto del Cnel (n.28/2025), dedicato alle questioni della “Transizione ecologica e contrattazione collettiva“, insieme a “Una rassegna sui settori metalmeccanico, energia-petrolio e credito”.
L’analisi mette in luce – sulla base di casi concreti – come la contrattazione collettiva possa rappresentare uno degli strumenti chiave per affrontare le sfide della transizione ecologica, adottando un approccio sistemico che integra formazione, bilateralità e innovazione organizzativa.
In particolare, emerge una chiara consapevolezza del ruolo strategico della formazione come leva per accompagnare i lavoratori nelle profonde trasformazioni richieste dai nuovi modelli di sostenibilità e dalla riconversione industriale.
Tale consapevolezza si traduce nell’ampliamento dell’offerta formativa, nella creazione di percorsi personalizzati e nell’utilizzo di piattaforme innovative per l’apprendimento, con un’attenzione particolare all’integrazione delle competenze digitali e ambientali. Vengono evidenziati il ruolo e il forte collegamento della formazione e dello sviluppo delle competenze per la transizione non solamente verde ma anche sociale.
Le parti sociali sono, quindi, chiamate a sviluppare iniziative di formazione e di creazione di competenze e posti di lavoro verdi, con l’obiettivo non solo di affrontare le sfide e rispondere alle criticità e ai potenziali impatti negativi derivanti dai processi di riconversione e trasformazione, ma anche di trasformare questi processi in opportunità economiche e sociali, garantendo la tutela e, soprattutto, l’inclusione dei gruppi vulnerabili nei percorsi di transizione.
Inoltre, emergono iniziative per rafforzare il ruolo di figure dedicate alla salute, sicurezza e tutela ambientale, come i Rappresentanti dei lavoratori per la salute e sicurezza, ai quali in molti settori è stata attribuita una delega specifica anche per le questioni ambientali.
Il tema della formazione emerge, infatti, come un elemento centrale nelle azioni di adattamento alla transizione ecologica, considerata una leva strategica per affrontare le sfide delle transizioni in corso, e risultando strumento trasversale a tutti i settori analizzati.
Il settore metalmeccanico, in particolare, inserisce il tema della formazione professionale all’articolo 4 del Ccnl del 2003, evidenziando come «le parti convengono sull’importanza della formazione professionale quale strumento fondamentale per l’auspicata valorizzazione professionale delle risorse umane e per l’indispensabile incremento della competitività internazionale delle imprese». Ma la vera svolta per quanto riguarda il diritto alla formazione è avvenuta nel rinnovo contrattuale del 2016, ed è criticabile che il rapporto non ne accenni.
La formazione emerge, quindi, come strumento imprescindibile per affrontare le evoluzioni connesse alla ridefinizione delle dinamiche lavorative, nonché per colmare il divario delle competenze digitali emergenti, derivanti dalle innovazioni tecnologiche, di processo e di prodotto.
Similmente prevede il settore energetico-petrolifero che, come specificato sin dal rinnovo del 2002, intende la formazione «come veicolo per una cultura orientata al cambiamento, rappresenta la leva strategica per la valorizzazione delle risorse umane», evidenziando, così, la centralità dello strumento per rispondere alle trasformazioni e riconversioni in atto a tutela del lavoratore coinvolto.
A tal fine, una vasta gamma di temi viene inclusa nei programmi di formazione, che sin dal contratto del 2002 comprendono la promozione della ricerca e dello sviluppo, con l’obiettivo di stimolare l’innovazione e il progresso tecnologico, nonché l’adeguamento alle nuove tecnologie; la conoscenza di aspetti critici legati alla salute e sicurezza dei lavoratori, nonché alla tutela dell’ambiente.
Interessante notare come sin dal Ccnl del 2006, viene previsto un totale di 64 ore di formazione in materia di salute, sicurezza e ambiente per tutti i lavoratori. Per la figura del Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e l’ambiente (Rlsa), che si approfondirà di seguito, sono state aggiunte ulteriori 16 ore annue di formazione durante l’intero mandato, con un’attenzione particolare alle tematiche ambientali.
I successivi rinnovi contrattuali confermano tale disposizione, con la differenza dell’ultimo accordo che introduce una novità: delle 16 ore destinate alla formazione dell’Rlsa, si specifica che almeno 4 debbano essere dedicate esclusivamente all’approfondimento di questioni ambientali.
Si nota, inoltre, come l’ultimo accordo di settore introduca per la prima volta la transizione energetica, esplicitamente, tra gli obiettivi al fine di permettere l’effettiva partecipazione ai percorsi proposti, e dunque con lo scopo di concretizzare sempre più gli obiettivi premessi, l’ultimo rinnovo chiarisce anche «la necessità di una maggiore valorizzazione anche delle attività formative che prevedano l’utilizzo di piattaforme di e-learning, video conference e/o soluzioni blended, con riferimento alle attività considerate a basso rischio».
Anche nel settore del credito la formazione continua rappresentare, come per gli altri settori oggetto d’indagine, un pilastro fondamentale essenziale per garantire la protezione dell’occupazione, la mobilità e lo sviluppo delle competenze professionali, assumendo conseguentemente un ruolo strategico per affrontare le trasformazioni del settore anche in ottica di ottimizzazione delle risorse umane.
Accanto a queste misure, il ricorso a sistemi di bilateralità sembra rappresentare un elemento cardine per garantire una gestione condivisa e partecipata delle trasformazioni. Gli enti bilaterali, osservatori e commissioni paritetiche dimostrano, infatti, di essere non solo strumenti per il monitoraggio delle tendenze settoriali, ma anche attori propositivi in grado di anticipare i cambiamenti, promuovere l’innovazione e agevolare il dialogo tra le parti sociali.
In particolare, il settore energetico-petrolifero e quello del credito si distinguono per l’articolazione multilivello e l’ampiezza delle competenze attribuite a tali organismi, che spaziano dall’analisi delle politiche industriali alla promozione della sostenibilità e all’adozione di modelli di gestione integrata per la salute, la sicurezza e l’ambiente.
La co-partecipazione e le varie esperienze di bilateralità portate all’attenzione, concepite dalle parti con lo scopo di osservazione, formazione e gestione dei mercati del lavoro in transizione, risultano – secondo il rapporto – strumento di intervento che permette intervenire coerentemente e solidalmente in tutte le fasi dei processi di riconversione produttiva e occupazionale.
Questo “primato” delle relazioni industriali e della contrattazione, anche decentrata, pur segnandone anche un lato critico ovvero il funzionamento meno efficace quando la contrattazione si riveli meno dinamica e dunque sia più basso il tasso di applicazione delle relative discipline, può al contempo emergere come il fattore rilevate e caratterizzante positivamente l’esperienza bilaterale (anche) nel processo di transizione ecologica.
In diversi contratti aziendali, fin dalle premesse, viene evidenziata la centralità delle tematiche ambientali e della sostenibilità. Allo stesso modo, numerosi Piani strategici aziendali sono stati aggiornati e integrati con questi temi, contribuendo a innovare le modalità operative sul mercato delle singole aziende e a ridefinire le loro relazioni con gli stakeholder.
Questi processi appaiono, infatti, sempre meno orientati esclusivamente al raggiungimento di obiettivi economici, privilegiando invece finalità volte al beneficio collettivo (in termini ambientali e sociali), generando un impatto positivo sui collaboratori, sulle comunità di riferimento e sull’ambiente.
In questo contesto, la sostenibilità, intesa come impegno responsabile verso l’ambiente, i lavoratori e il territorio, diventa un pilastro fondamentale della strategia aziendale. Non sorprende, quindi, che la responsabilità sociale d’impresa stia emergendo come questione centrale anche nella contrattazione aziendale, con un focus su diritti umani, ambiente e riduzione dell’impatto ecologico.
Anche nell’ambito dei singoli sistemi di relazioni industriali, si nota la creazione e implementazione di osservatori aziendali con competenze su ambiente e sicurezza, di commissioni bilaterali dedicate ai temi ambientali di comitati focalizzati su welfare, sicurezza e sviluppo sostenibile similmente a quanto emerso dall’analisi della contrattazione collettiva nazionale.
Difatti, le esperienze bilaterali, di co-progettazione e co-partecipazione sono di natura e origine contrattual-collettiva ed è la stessa autonomia collettiva che rafforza progressivamente la struttura, la fonte, il perimetro d’azione, il ruolo, le prestazioni che erogano.
Le parti sociali, proprio perché inserite nei mercati del lavoro, nei settori economico-produttivi, nelle singole dimensioni industriali, possono guardare ai fabbisogni di riconversione produttiva, di competenze e professionalità, conoscendo le specificità dei territori e dei siti produttivi e dei settori in cui agiscono, dunque, meglio declinando le politiche di transizione.
Contestualmente, le esperienze di bilateralità e gli strumenti di collaborazione, proprio perché coinvolgono direttamente le parti sociali e le realtà produttive, possono incentivare la contrattazione collettiva nel paradigma della transizione ecologica a tutela degli interessi di tutte le parti coinvolte, spingendo peraltro gli obiettivi di responsabilità sociale anche all’esterno dei confini dell’azienda.
Concludendo potremmo dire – assumendocene la responsabilità – che il rapporto del Cnel sulla transizione ecologica e la contrattazione mette ancora un volta in evidenza, in un settore delicato e sperimentale, una preoccupante divaricazione tra le organizzazioni sindacali di categoria che svolgono in prevalenza contrattazione collettiva e talune centrali confederali, Mentre le prime sfidano l’innovazione le seconde restano confinate in un primitivismo culturale fatto di slogan generici e confusi che non aiutano certo a risolvere gli attuali problemi.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.