La manovra economica che si vuole approvata entro fine anno è delineata. Il testo definitivo aspetta le ultime limature da vertici di maggioranza e poi sarà definito nel dibattito parlamentare. Come sempre, l’incontro fra Governo e rappresentanze sindacali ha rappresentato un momento significativo per comprendere i temi principali che venivano messi al centro del confronto sociale. Da qui vengono poi le indicazioni per una scelta di confronto o per momenti di conflitto finalizzati a rinforzare la possibilità di ottenere cambiamenti significativi.
Anche questa volta, nonostante si fosse andati all’incontro con un elenco di temi apparentemente simili, il confronto ha portato a giudizi contrastanti. All’uscita dal dialogo Cgil e Uil hanno dichiarato che la posizione del Governo era di forte chiusura e la distanza di giudizio così ampia che richiedeva di indire scioperi contro la manovra così impostata. La Cisl ha invece sostenuto che la proposta governativa di aprire tavoli di confronto era un’occasione da raccogliere e cercare in quella sede di ottenere cambiamenti nei provvedimenti più controversi. Così come dopo il confronto con il Governo Draghi, avremo uno sciopero generale indetto da due sindacati e iniziative di mobilitazione territoriali diverse indette dalla Cisl.
Dietro una discussione che si cerca di limitare alla diversità fra forme di mobilitazione appare sempre più evidente che si sta approfondendo una differenza legata al come fare sindacato oggi. Se leggiamo i due giudizi dati dai segretari generali di Cisl e Cgil all’uscita dal confronto appare chiaro che si partiva da due visioni diverse. Il primo dichiara che la manovra ha punti apprezzabili e altri controversi, per il secondo è regressiva nel merito e nel metodo, accentua le differenze sociali e la precarietà. Non sono dichiarazioni diverse motivate solo dalla necessità di proporre forme di lotta diverse. Sono due idee differenti di come oggi si può portare avanti il confronto con i Governi senza tornare alle fasi della concertazione e superando una logica semplicemente conflittuale.
Vediamo in sintesi che la manovra comprende quattro blocchi di misure. I sostegni a famiglie e imprese per sostenere la domanda di investimenti e consumi di fronte all’impennata dei prezzi per energia e inflazione indotta dalla crisi internazionale. Vi sono poi misure fiscali per sostenere i redditi bassi e per aumentare entrate con flat tax e tasse su extraprofitti, stanziamenti per stipendi nel pubblico impiego e interventi sulle pensioni (Quota 103, Ape sociale e Opzione donna). Tagli a spese di ministeri e revisione parziale del Reddito di cittadinanza sono i risparmi fatti per sostenere le spese decise.
Molte di queste misure replicano ancora la logica dei bonus. Sono contributi diretti per sostegni ai redditi bassi. La scelta è stata dettata dalla mancanza di tempo per operare con misure strutturali. Anche il taglio fiscale di pochi punti per sostenere i salari reali cerca di mitigare l’impatto inflattivo, ma non può nascondere la necessità di operare una riforma fiscale di carattere generale.
Certo non si poteva chiedere di mettere in questa prima manovra economica tutte le soluzioni strutturali che caratterizzano il ritardo del nostro Paese nel campo del sistema fiscale, di quello pensionistico e del modello di welfare in generale. Ad accompagnare le misure principali sono state inserite, o si è dichiarato di volere, una serie di misure dal limite della spesa in contante o a quello per il ricorso ai pagamenti elettronici che hanno dato l’idea di un Governo che ha lo sguardo rivolto al passato per le tecnologie e ha una visione del commercio e della piccola impresa più arretrata della realtà stessa. Sono tutti punti su cui arrivare a un confronto anche duro e serrato, ma che è possibile se si è in grado di portare al confronto piattaforme che contemplino nuovi modelli di equilibrio sociale sia nel campo fiscale che in quello del sistema pensionistico. Scaricare solo sulla spesa pubblica la soluzione per squilibri esistenti o per sopperire alle nuove diseguaglianze create dal sistema economico non porta a possibili confronti, ma motiva scontri senza soluzione.
La debolezza della posizione sindacale complessiva emerge con più chiarezza se mettiamo a fuoco il tema del lavoro. Nella manovra del Governo vi è poco. Se togliamo le misure sui salari legate al taglio di parte del cuneo fiscale e lo stanziamento per i dipendenti pubblici l’unica misura per il lavoro è la reintroduzione dei voucher per alcune professioni. Vi è poi la manovra sull’avviamento al lavoro dei percettori del Reddito di cittadinanza in grado di lavorare per poi procedere a una riforma più complessiva degli strumenti di lotta alle povertà.
È da tempo che si sostiene che alla questione salariale va affiancata la necessità di avere forti investimenti in formazione per i lavoratori per sconfiggere i lavori poveri. Investire per una rete di servizi al lavoro, svolti dal pubblico o da privati, che si prendano carico delle fasi di transizione dei lavoratori è l’obiettivo prioritario. Il nodo fra salario minimo, voucher per lavori definiti, attuazione della legge di rappresentanza per i sindacati, sistema di politiche attive universale e politiche per incrementare la produttività è la base per una piattaforma sindacale che può motivare un confronto che, se non positivo, può portare a rotture profonde. Ma per ora è proprio su questi nodi centrali per difendere il lavoro nella società attuale che passa la divisione fra chi insegue il conflitto per il conflitto e chi cerca di costruire piattaforme di confronto.
Se il sindacato non fa prima un serio confronto al proprio interno per definire come si tutelano oggi tutti i lavori al tavolo con i Governi arriverà sempre più debole e diviso.
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