A Rimini, all’Assemblea organizzativa della Cgil, le relazioni, gli interventi e il dibattito hanno fatto credere, in certi momenti, che non si fosse in presenza di una discussione sui problemi del lavoro, ma a una battuta di “caccia grossa” a taluni istituti legislativi e contrattuali che regolano – in tutto il mondo sviluppato – talune fattispecie di rapporti, di antico e di più recente conio. In un contesto contrassegnato dalla relazione di Maurizio Landini nella quale è stata dichiarata la guerra alla precarietà, il fedele alleato Pierpaolo Bombardieri, leader della Uil, ha gettato ulteriore benzina sul fuoco e dava avvio alla rincorsa inflazione-salari-inflazione ovvero a quel circuito perverso che potrebbe aggiungersi ai tanti guai che si profilano all’orizzonte e che potrebbero far deviare nuovamente una ripresa economica importante ma ancora troppo fragile.
Proseguiamo con ordine. Senza esimerci, tuttavia, da una considerazione parecchio triste. Ci furono tempi – chi scrive li ha vissuti – in cui un’iniziativa come quella svoltasi a Rimini la settimana scorsa avrebbe conteso, con altre notizie, l’apertura dei quotidiani. Ora le confederazioni sindacali – eredi di una grande storia – devono accontentarsi sovente di una “breve” nelle pagine dell’economia, a meno che non si parli di pensioni. Sarà perché una società “sazia e disperata” non si interessa più del lavoro, come dicono i dirigenti sindacali. Ma forse un po’ di autocritica non guasterebbe da parte loro.
Il j’accuse è partito da Maurizio Landini, il quale, nella relazione d’apertura, si è impegnato a picconare l’assetto del mercato del lavoro. ”Nel confronto col Governo e le imprese vogliamo lanciare un messaggio secco: basta precarietà – ha scandito -. Bisogna porre fine a questa forma di lavoro che impedisce qualsiasi progetto di vita a tanti giovani, tante donne, che ostacola la crescita e lo sviluppo del Mezzogiorno. Basta precarietà vuol dire cancellare forme di lavoro che negano la dignità delle persone e ne favoriscono lo sfruttamento”. Ed ecco le soluzioni indicate dalla Cgil: Introdurre un contratto unico di inserimento al lavoro a contributo formativo e finalizzato alla stabilità occupazionale; condizionare i finanziamenti e le agevolazioni pubbliche alle imprese alla stabilità del lavoro; superare il principio aberrante che si può essere poveri lavorando. Basta precarietà – ha affermato ancora Landini – significa che nelle imprese, nei luoghi di lavoro pubblici e privati, vanno aperte vertenze per la stabilizzazione delle lavoratrici e dei lavoratori precari”. La battaglia contro la precarietà “deve diventare la carta d’identità del sindacato confederale”.
L’ukase del leader della Cgil si è rivelato ben presto un formidabile assist al compagno Bombardieri, il quale, parafrasando un canto popolare di un secolo fa, è salito alla tribuna annunciando “noi faremo come la Spagna” che, a suo avviso, ha abolito i contratti a termine (fatte salve le sostituzioni e i picchi produttivi).
Ma che cos’è accaduto in Spagna? La revisione legislativa, che ha recepito un accordo triangolare raggiunto dopo una lunga trattativa, è molto ampia. Riportiamo di seguito gli elementi chiave della riforma adottata:
– Semplificazione del menu dei contratti:
1) Razionalizzazione dei contratti di formazione per facilitare l’accesso al lavoro;
2) Delimitazione dei motivi eccezionali di utilizzo contratti a tempo determinato, consentiti esclusivamente in virtù di un aumento occasionale della produzione o della sostituzione dei lavoratori in congedo;
3) Rafforzamento del contratto a tempo indeterminato per attività discontinue, stagionali o eseguite in determinati periodi, comprese le attività di subappalto e agenzie di collocamento;
4) Appalti per lavori edili in corso a tempo indeterminato, richiedendo un’offerta di ricollocazione da parte della stessa azienda al termine dei lavori in corso.
– Ulteriori misure di riduzione della quota di contratti a tempo determinato:
1) il riconoscimento del contratto a tempo indeterminato come tipologia di default per i rapporti di lavoro;
2) la riduzione del periodo massimo che può essere un lavoratore con contratto a tempo determinato;
3) il rafforzamento della sistema sanzionatorio e maggiore sanzione per l’uso ricorrente di contratti a tempo ridotto.
– Rafforzamento del regime di riduzione dell’orario di lavoro:
1) La procedura è stata semplificata per il regime ordinario in essere e aggiunte cause di forza maggiore come il Covid;
2)Viene creato un nuovo meccanismo di flessibilità e stabilizzazione dell’occupazione per i ciclici shock macroeconomici e le trasformazioni settoriali che richiedono riqualificazione e riallocazione del lavoro; il meccanismo sarà attivato dal Consiglio dei ministri e verrà creato un fondo per finanziare i costi associati;
3) La condizionalità formativa è generalizzata per le imprese che hanno diritto a benefici economici (esenzioni previdenziali e crediti aggiuntivi); i sostegni al reddito per i lavoratori sono rafforzati;
4) hanno accesso prioritario i lavoratori soggetti a regimi di riduzione dell’orario di lavoro; azioni di formazione organizzate dai servizi pubblici per l’impiego.
– Revisione del modello di contrattazione collettiva.
Vengono rivisti taluni aspetti della riforma del mercato del lavoro del 2012:
1) Gli accordi settoriali riacquistano priorità – per quanto riguarda le retribuzioni – rispetto ai contratti a livello aziendale; questi ultimi mantengono la priorità in settori come compenso degli straordinari, retribuzione del lavoro a turni, organizzazione dell’orario di lavoro e delle ferie, e adeguamento delle graduatorie professionali;
2) è ripristinata l’ultra-attività della contrattazione collettiva fino al rinnovo;
3) non sono state introdotte modifiche alle clausole di opting-out dai contratti collettivi di settore e la modifica sostanziale delle condizioni di lavoro secondo quanto previsto dagli accordi-
– Migliore delimitazione delle condizioni di lavoro per i dipendenti nelle attività in subappalto:
1) Sarà applicato il contratto collettivo del settore dell’attività svolta, o, se esistente, il contratto collettivo aziendale dell’appaltatore.
Come si può vedere le modifiche sono importanti. Peraltro sono state adottate con un obiettivo di maggiore tutela dei lavoratori su impulso dell’Unione europea che aveva condizionato a queste misure l’erogazione della prima tranche del Recovery Fund (12 miliardi), soprattutto per quanto riguarda l’assetto della contrattazione collettiva, nel senso di un maggiore equilibrio tra la contrattazione di settore e quella di prossimità (che era al centro della riforma del 2012). Si riconosce, tuttavia, che la riforma del 2012 ha sostenuto la ripresa economica e dell’occupazione tra il 2014 e il 2019, consentendo una maggiore capacità di adattamento delle imprese e riducendo i costi di licenziamento. E ha altresì sostenuto la rapida ripresa del mercato del lavoro dopo lo shock dell’emergenza sanitaria.
Nella riforma, si riscontra pure una stretta sui contratti a termine (in Spagna sono il 25% del totale). Ma non è corretto scegliere fior da fiore come vorrebbe fare Bombardieri. Queste maggiori aperture vanno prese in considerazione tenendo presente la disciplina del licenziamento individuale in quel Paese. In Spagna, il Giudice del lavoro, adito su ricorso del lavoratore, qualora consideri il licenziamento “improcedente” (illegittimo), condanna l’azienda a pagare al dipendente licenziato un’indennità pari a 33 giorni di salario per anno di servizio, fino a un massimo di 24 mensilità.
Ma la miccia più pericolosa accesa da Bombardieri, nel suo intervento di saluto (più defilata la Cisl) ha riguardato la questione del rapporto tra retribuzioni e inflazione, alla luce della fiammata dell’energia, delle materie prime e dei servizi. In parole semplici, il leader della Uil ha affossato il Patto della fabbrica, siglato in pompa magna il 9 marzo 2018, nel quale erano state raccolte tutte le più importanti liturgie di un ventennio di negoziati con la Confindustria. Con un’inflazione del 5% – è la sua tesi – il Patto non esiste più.
Landini non poteva essere da meno; nelle conclusioni, il segretario della Cgil ha aperto l’ennesima polemica col Presidente della Confindustria Carlo Bonomi il quale – è comprensibile – non è disposto a rivedere i criteri con i quali, nel fissare i minimi tabellari nei contratti nazionali, si tiene conto dell’inflazione al netto – come si diceva a suo tempo – di quella importata (i prezzi dell’energia). Si tratta del parametro dell’IPCA, che, dopo le polemiche del 2009 quando la Cgil non sottoscrisse il relativo accordo, era atterrato su di un terreno di intesa. Tanto che alla lettera H) del punto 5 del Patto della fabbrica fu stabilito quanto segue:
“Il contratto collettivo nazionale di categoria individuerà i minimi tabellari per il periodo di vigenza contrattuale, intesi quali trattamento economico minimo (TEM). La variazione dei valori del TEM (minimi tabellari) avverrà – secondo le regole condivise, per norma o prassi, nei singoli CCNL – in funzione degli scostamenti registrati nel tempo dall’indice dei prezzi al consumo armonizzato per i Paesi membri della Comunità europea, depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati come calcolato dall’Istat. Il contratto collettivo nazionale di categoria, in ragione dei processi di trasformazione e o di innovazione organizzativa, potrà modificare il valore del TEM”.
Che vi siano dei problemi molto seri è evidente; così vanno comprese le preoccupazioni dei sindacati. Ma basterebbe riflettere sulla vicenda della “scala mobile” (l’indicizzazione automatica delle retribuzioni al costo della vita) per rendersi conto di un dato ineludibile: se si innescasse una rincorsa delle retribuzioni a trend inflazionistici tanto accelerati si finirebbe in breve – consolidandone i corsi – per arrivare a tassi insostenibili per l’economia e la competitività dell’apparato produttivo. In sostanza, sotto queste “forche caudine” il Paese è già passato (e ha rischiato di rimanervi intrappolato) e si è reso conto che l’inflazione è la vera nemica dei percettori di un reddito fisso.
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