Tra gli ospiti della giornata di apertura del Meeting di Rimini c’è anche Luigi Sbarra, che alle 19 in Sala Conai A2 parlerà di “Competenze, talenti e partecipazione al lavoro”. Abbiamo raggiunto il segretario generale della Cisl per parlare dei temi del suo intervento e della più stretta attualità.
Cominciamo dai temi dell’incontro cui parteciperà. Sappiamo che ci sono imprese che vorrebbero assumere, ma non riescono a trovare dipendenti con le giuste competenze. Come si può risolvere questa criticità?
È la frattura principale del mercato del lavoro italiano: più di 5 milioni di Neet da una parte e aziende che non trovano professionalità dall’altra. In mezzo a questa faglia ci sono decenni di occasioni perdute, con riforme del lavoro inadeguate, spesso dannose, che hanno irrigidito le regole lavoristiche invece di puntare sull’unico driver capace di elevare qualità e stabilità del lavoro: la formazione, il diritto universale e soggettivo all’apprendimento, l’idea che lo sviluppo delle competenze richiede percorsi continui, che durano l’intera vita professionale, dalla fine della scuola alla pensione. Questo implica il più grande investimento di sempre sull’istruzione e su reti istituzionali, bilaterali e sussidiarie di politica attiva. Bisogna realizzare sistemi di prossimità che sappiano rilevare la domanda su ogni territorio e la facciano incontrare con aziende, scuole, centri di formazione accreditati, Its, università. Bisogna coinvolgere la pelle viva della società valorizzando la bilateralità, innovando i contenuti contrattuali, coinvolgendo le Agenzie per il lavoro. Quella delle competenze è la vera grande sfida del tempo presente.
Ci sono anche tanti giovani, ben preparati e formati, che scelgono di andare all’estero perché non si sentono sufficientemente valorizzati nel nostro Paese. È possibile evitare questa perdita di talenti e capitale umano, visto anche lo squilibrio demografico crescente in Italia?
Non è solo possibile: è doveroso. Evitando però di cedere a certa retorica che associa l’emigrazione di oggi a quella di inizio Novecento. Viviamo ormai, e per fortuna, in un contesto aperto, con liberi spostamenti professionali fisiologici e fertili. È assolutamente positivo che un ragazzo, dopo il diploma, la laurea o il dottorato, voglia fare esperienza all’estero. La sfida vera è poi farli tornare, e non spinti dalla nostalgia di casa, ma dall’effettivo “appeal” delle nostre aziende, delle nostre università, dei nostri settori pubblici. Che però, quando assumono, difficilmente risultano competitive rispetto a tante omologhe realtà sparse nel mondo. C’è una questione salariale, ovviamente, ma non solo. Pesa nella bassa attrattività anche la scarsa innovazione e il poco dinamismo, una produttività mal redistribuita, scarsi livelli di coinvolgimento e partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese pubbliche e private. Invertire la rotta significa mettere mano su questi punti con investimenti e riforme in grado di rispondere alla questione centrale di un’occupazione da rilanciare nei suoi aspetti quantitativi e qualitativi.
Passando ai temi di attualità, nel dibattito politico si continua a parlare del salario minimo legale. Ci può ricordare perché la Cisl ha una posizione che appare più contraria tra le tre principali confederazioni sindacali italiane?
Bisognerebbe cambiare linguaggio intorno al “salario minimo”, a partire proprio da come lo si definisce. Ai lavoratori deboli non serve una “paga minima”, ma una retribuzione adeguata e sempre dignitosa. Assicurare a tutti, e intendo davvero a tutti senza escludere colf e badanti, un salario dignitoso è una priorità da affrontare seriamente, senza demagogia. Un intervento serve, ma deve essere finalizzato a rafforzare ed estendere la contrattazione, come indica anche l’Europa. Prendiamo a riferimento il Trattamento economico complessivo dei contratti prevalenti ed estendiamolo con una norma leggera, settore per settore, ai comparti affini non coperti da Ccnl o colpiti da contrattazione pirata. Non serve la legge sulla rappresentanza, i dati sulla diffusione dei contratti sono già in possesso di Inps e Cnel. Una mappatura, indispensabile per dare riferimenti agli ispettori e ai tribunali, può essere agevolata anche dall’obbligo delle imprese a stampare il codice del Ccnl sulla busta paga. Pensare che basti una cifra sulla Gazzetta ufficiale vuol dire illudersi o peggio illudere la gente.
Perché?
Si rischia una pezza peggiore del buco con l’esplosione del lavoro nero nelle fasce deboli, e un’uscita di massa dai contratti con una compressione verso il basso dei salari delle fasce medie. Ben venga allora il percorso indicato dal Governo al Cnel per individuare le condizioni di un accordo ampio e condiviso anche su una possibile norma che rafforzi relazioni industriali ed estenda la contrattazione prevalente. Bisogna procedere insieme, secondo un’impostazione politica bipartisan, coinvolgendo attivamente le parti sociali.
Come ha anche lei riconosciuto, nel nostro Paese quello dei salari bassi è un problema reale, anche perché sono i livelli intermedi a essere deboli. Cosa si può fare in questo senso?
Il lavoro povero dipende solo in minima parte dall’incidenza dei cosiddetti contratti gialli. C’è molto di più. Ci sono tantissime persone, in particolare donne, incastrate nel part-time involontario. Giovani e meno giovani imprigionati nel lavoro parasubordinato, nei falsi stage extracurriculari, nelle cooperative spurie, in studi professionali che non pagano neanche i rimborsi spese. Per queste persone il problema non è la paga oraria, ma lavorare le giuste ore e con le giuste tutele che solo un buon contratto può assicurare. Dare i riferimenti su salari e tutele è poi perfettamente inutile se non si incrementano le ispezioni e non si inaspriscono le misure punitive, anche penali, per i datori di lavoro “pescati” ad assumere in nero o a non applicare contratti dignitosi. Il vero dumping nel Paese si pratica nel sommerso, e lì bisogna concentrare le truppe ispettive. Restano poi sullo sfondo le criticità di un sistema produttivo polverizzato, che nelle microimprese resta fermo nella produttività e non redistribuisce ricchezza sul lavoro. Uno scenario che ci chiama a realizzare politiche di aggregazione per un aumento dimensionale delle imprese, a costruire un patto fiscale redistributivo, a promuovere la contrattazione aziendale e territoriale, a esaltare le relazioni industriali e la partecipazione nei luoghi di lavoro.
Una parte della politica e del sindacato ha criticato aspramente la scelta del Governo di abolire il Reddito di cittadinanza. Lei cosa ne pensa?
In questa transizione dal vecchio Reddito di cittadinanza al nuovo Assegno di inclusione è fondamentale che tutti remino nella stessa direzione, evitando conflitti tra livelli istituzionali, partite personali, strumentalizzazioni politiche. La parola chiave è responsabilità. Governo, Regioni e Comuni devono cooperare per assicurare una gestione adeguata delle competenze. Nella riforma del Rdc ci sono cose che abbiamo apprezzato, come la netta riduzione degli anni di residenza necessari per riconoscere il beneficio alle famiglie migranti e la cumulabilità dell’assegno assistenziale e del reddito da lavoro. Quello che invece va rafforzato sono servizi e risorse per le famiglie povere e persone fragili. Per gli occupabili occorre fare un grande investimento sui servizi per l’impiego e sulle politiche attive per accompagnare chi può lavorare da logiche di sussidio a un’occupazione dignitosa. Vanno garantiti lavoro, sostegno al reddito, percorsi perpetui di crescita di soft e hard skills.
L’occupazione in Italia è cresciuta, ma restiamo indietro rispetto agli altri principali Paesi europei e c’è anche un alto numero di inattivi. Cosa si può fare su questo fronte?
L’andamento è positivo e mette in evidenza la grande capacità di reazione delle nostre comunità lavorative e produttive. Perché questo vento diventi ripresa stabile, equa, sostenuta, però, occorre alzare le vele del dialogo e della partecipazione sociale su riforme e investimenti. Ci sono da affrontare criticità sedimentate del lavoro giovanile e femminile e da contrastare il lavoro povero e la precarietà, incentivando quello stabile. Un’ora di lavoro a tempo determinato deve costare all’azienda di più di della stessa ora contrattualizzata a tempo indeterminato. E quel “delta” deve andare in busta paga del lavoratore e in un Fondo di solidarietà per le pensioni contributive. Ancora: occorre accelerare la messa a terra del Pnrr e l’impiego delle risorse nazionali ed europee spingendo di più su una governance partecipata che permetta buone flessibilità negoziate per velocizzare i cantieri, controllo su legalità e adeguata qualità della spesa, condizionalità sociali per ogni euro erogato. La partita si vince anche assumendo, stabilizzando e investendo nella Pubblica amministrazione, nella sanità, nella scuola, l’università e la ricerca.
Come sta procedendo la raccolta firme sulla vostra proposta di legge di iniziativa popolare sulla partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese? Ci può spiegare perché oggi sarebbe importante varare una legge su questo fronte, al di là di quelle che sono storicamente le tesi della Cisl?
Stanno arrivando importanti soddisfazioni sia nella risposta di adesioni sui territori, sia nel sostegno espresso da autorevoli espressioni del mondo dell’università, del giornalismo, delle istituzioni e delle imprese, senza dimenticare il sostegno di una vasta area riformista, partendo da quella cristiana. Vediamo che diversi partiti guardano con interesse a questo sentiero. Tutto questo non può che farci piacere. Noi andiamo avanti, promuovendo una riforma cardine che punta a far evolvere le relazioni sociali del Paese e intercetta tutte le più importanti questioni della fase attuale: dalla stabilità del lavoro all’incremento dei salari, dalla spinta sulla produttività al contrasto alle delocalizzazioni, da controlli su salute e sicurezza all’applicazione dei buoni contratti, dagli investimenti sulla formazione al freno alla finanza speculativa. Siamo e saremo in mobilitazione su tutto il territorio nazionale fino a novembre per dare gambe solide e credibili al progetto, evitando tentazioni dirigistiche, valorizzando la contrattazione, collegando incentivi e sostegni fiscali a soluzioni che diano protagonismo alle relazioni industriali. Su questo chiamiamo politica, Governo e interlocutori sociali a convergere in un ampio fronte riformatore.
Il Segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, ha definito finti i tavoli di confronto con il Governo, ha detto che l’Esecutivo invita organizzazioni firmatarie di contratti pirata e non esclude lo sciopero generale. Cosa ne pensa? Si va verso un autunno caldo e con il fronte sindacale non compatto?
Il sindacalismo confederale italiano è plurale, e in questa fase esprime sensibilità diverse nel modo di interpretare la propria azione. Ma gli obiettivi sono gli stessi, e tra questi credo ci sia anche la tenuta della coesione nazionale dando un’opportunità a un cambiamento partecipato. Questo per dire che parlare di sciopero oggi è mettere il carro davanti ai buoi. Noi procediamo con la nostra mobilitazione, che da due mesi va avanti sulla raccolta firme per la proposta di legge di iniziativa popolare sulla partecipazione, a cui da settembre si aggiungerà il cammino dal basso delle Assemblee organizzative e grandi iniziative nazionali su lavoro, precarietà, politiche attive e democrazia economica. Nel merito, restiamo fermamente convinti che sia il momento di dar spazio e credito ai negoziati in tutti i tavoli aperti, che non sono né pochi né finti. È lì, nel confronto, nell’incalzare il Governo sulle nostre proposte, che si esprime il cuore della nostra funzione sindacale. Stare con un piede nella trattativa e con l’altro in piazza rischia di auto-sabotarci, facendo saltare gli affidamenti e relegando il mondo del lavoro a un ruolo meramente protestatario. Peraltro dare spazio al dialogo non vuol dire rinunciare al conflitto: significa ricorrervi solo in caso il negoziato si rompa o non porti a nulla. Faremo il bilancio a tempo debito, senza sconti, guardando ai contenuti annunciati in Manovra.
A questo proposito, ci può dire quale misura o intervento ritiene fondamentale ci sia al suo interno della manovra per il prossimo anno?
Ben prima del prossimo anno va affrontato il tema di una nuova politica dei redditi, con un’intesa che metta in fase sindacati, imprese e Governo nel contrasto alla speculazione, nel controllo di prezzi e tariffe, nell’impegno reciproco di rinnovare e innovare tutti i contratti pubblici e privati. Va definito un percorso di sviluppo e coesione che richiede tra l’altro la conferma strutturale della riduzione del cuneo contributivo, la detassazione delle tredicesime a scaglioni, in modo da rendere la riforma progressiva e redistributiva. Vanno rinnovati tutti i contratti pubblici a partire da quello sulla Sanità. Chiediamo l’azzeramento del prelievo sui frutti della contrattazione di secondo livello e un forte investimento su istruzione, pubblico impiego e sistema-salute, per garantire dignità ai lavoratori e diritti di cittadinanza da Sud a Nord, come pure la definizione di una previdenza più flessibile, socialmente sostenibile, inclusiva e attenta ai bisogni dei giovani e delle donne. E poi vanno rilanciati gli investimenti pubblici e privati sulle infrastrutture materiali e immateriali, con una nuova prospettiva di politica industriale ed energetica, sbloccare le assunzioni e stabilizzare il precariato storico nei settori pubblici, costruire una nuova visione delle politiche sociali, affrontato il tema del divario tra Mezzogiorno e resto del Paese.
(Lorenzo Torrisi)
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